Ad Auschwitz, la domanda di Ratzingher «dov’eri Dio in quei giorni, perché hai taciuto?» è posta all’umanità tutta e si esplicita e racchiude in questa: cosa ne è stata della cultura, dell’intelligenza del Sapiens nel mentre si raggiungeva la più totale abiezione?
Ratzingher non può dubitare dell’intervento salvifico della Provvidenza che agisce nella storia, e, allora, la sua resta una domanda lacerante, anche per il non credente, senza una risposta plausibile ed univoca in cui riconoscersi.
«Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto barbarico» afferma Adorno che, però, sa bene come la poesia sia sopravvissuta, di conseguenza il filosofo vuole dire altro, ovvero richiama il ruolo ed il sopravvento dell’istintuale nella storia, di cui tenere conto nel fare poesia come esplicita Primo Levi «si può fare poesia, dopo Auschwitz, solo non dimenticando Auschwitz».
Il fondo dell’anima
Ratzingher, Adorno e Levi alludono al “fondo dell’anima” di cui parla Tocqueville: storia e poesia https://www.corrierenazionale.net/2024/05/14/auschwitz-la-storia-e-la-poesia/ dopo il secolo breve, si danno ad una sola condizione: da una parte, riconoscere, nell’abisso dei lager, il ruolo della ferocia, “umana troppo umana” in senso nicciano, di conseguenza che non ci è estranea ma ci costituisce, e dall’altra parte, che quel “fondo” agisce prepotente nella storia e si dispiega nelle guerre.
Pare si possa constatare come la storia, maestra di vita per Cicerone, faccia molta fatica a convincere con la propria lezione infatti, da sempre e tutt’ora, l’umanità continua a frequentare i campi di battaglia.
Il rapporto tra la storia e la poesia è antico: ambedue, con i propri strumenti e metodi, hanno sempre indagato l’umano.
La guerra di Troia, cantata da Omero, il De rerum natura di Lucrezio – in cui si intrecciano storia, poesia, filosofia e intuizioni anticipatrici perfino di tematiche della fisica – si esprimono con il verso, il pensiero poetante e la narrazione.
La storia e le interpretazioni
Decifrare le ragioni, le motivazioni sottese alla storia è compito dello storico che ci consente di capire come sia stato possibile Auschwitz ed il nazifascismo, col consenso di tanti e troppi, nell’Europa che si è considerata culla di letterati, artisti, filosofi e scienziati eccelsi.
Qui, si vogliono solo offrire alcune suggestioni che, sperabilmente, possano suscitare una qualche attenzione.
Ci è stato insegnato che la storia non si fa con i “se”, con i “ma” e non si ripete uguale, fatte salve le peculiarità di ogni epoca, sembrano riprodursi in essa dinamiche dicotomiche: aggressori-aggrediti, autocrazie-teocrazie versus democrazie.
L’impostazione dicotomica è un metodo di indagine alla pari con le interpretazioni delle dinamiche originate da motivazioni economiche, da logiche imperialistiche e dall’esaurirsi di istituzioni e civiltà.
S’impone, e non è questa la sede, da una parte, una riflessione sulla democrazia: dal discorso di Pericle agli ideali della rivoluzione americana e francese, alla nostra Costituzione, ai richiami all’uguaglianza del socialismo storico ed alla stessa dottrina sociale della Chiesa, e, dall’altra parte, si può convenire sull’inadeguatezza degli strumenti interpretativi, codificati dalla tradizione, di fronte all’abisso delle coscienze e della storia che Auschwitz rappresenta.
Nel misurarsi col nazifascismo – lo spartiacque tra civiltà e barbarie – fare storia implica, ancor più, tenere conto della natura umana, della physis nel cui profondo, si intrecciano il dato biologico, l’intelligenza, la cultura che ci co-appartengono e che, in osmosi con la tecnica, costituiscono uno human-tech-space da interpretare.
La storia è racconto di res gestae, della vita materiale ed ideale degli individui e non pare riducibile ad indagine scientifica, in senso proprio.
Il modello quantitativo
Galileo, l’inventore del metodo scientifico, considera solo il dato quantitativo – in quanto misurabile, riproducibile e verificabile – e tace, dichiaratamente, su quello qualitativo in cui colloca «colori, odori, sapori» al cui ambito – s.l.- a ragione, attengono i dati esperienziali, le correlazioni tra soggetti e il contesto culturale e sociale, che, a loro volta, incidono sulla vita di ogni individuo non astratto ma reale alla ricerca di senso: elementi non oggettivabili, non calcolabili e pertanto espunti, da parte dell’inventore del cannocchiale, dall’osservazione scientifica.
Un’ipotesi interpretativa di impronta qualitativa
La “frattura” teorica di Galileo s’innerva nel cuore del logos e suggerisce di partire proprio dal “silenzio” del matematico pisano, dalla crisi del soggetto e dei fondamenti che, da Nietzsche a Gödel e Heisenberg, hanno segnato i secoli scorsi fino ai nostri giorni per poter immaginare un’ipotesi interpretativa, che si rivolga ad un pensiero di impronta qualitativa.
Il discorso razionale è chiamato ad un salto di paradigma.
Qui, si pensa ad un’interpretazione della storia tramite il ricorso alla teoria thomiana delle catastrofi per cui le “forme” conoscono bruschi ed improvvisi cambiamenti, profonde discontinuità, rivolgimenti, καταστροφή, termine aristotelico di cui Thom si è avvalso per denominare la sua teoria qualitativa e che ha già conosciuto applicazioni in tante discipline.
La storia e le AI come “singolarità”
Il Prof. Barbero parla di periodizzazioni ovvero di cambi di paradigma come sono stati l’avvento della ruota, la scoperta dell’America, la bomba atomica, internet e, ora, la AI che lancia un’opa al linguaggio, da sempre, prerogativa del Sapiens.
Il Prof. Manzotti scrive che la AI «genera e crea il linguaggio ma supera la teoria dell’informazione e l’informatica infatti fa collegamenti e connessioni tra saperi in modo originale come l’individuo».
A ragione veduta, la AI è una “singolarità”, come vuole la teoria thomiana.
Il negazionismo e la memoria storica
Per quanto attiene alla ricerca storica, la AI si presta a riscritture di informazioni e fonti, in presenza, per di piú di una tecnologia pervasiva ed esclusiva di Big Tech che costituiscono realtà al di sopra degli Stati: uno scenario preoccupante per le sorti delle democrazie come neanche un dittatore avrebbe mai immaginato e sperato.
Esiste, poi, un modo più subdolo di alterare i dati di realtà e di fattualità storica: la minimizzazione, per cui mentre i nazisti occupavano Roma, torturavano a via Tasso, tra un rastrellamento e l’altro con l’aiuto dei fascisti, una formazione di guerra, ben equipaggiata di armi, diventa, nella narrazione, un gruppo bandistico di passaggio in V. Rasella: segno dei tempi.
Il prof. Canali ha curato la mostra su Matteotti, di cui ricorre il centenario dell’uccisione, e ha scritto che è stata visitata solo da un leader: segno dei tempi.
In questo contesto, la testimonianza e la memoria sono messe a dura prova.
Ma sappiamo con Bohr che «ogni cosa che consideriamo reale è costituita da entità che non possono essere considerate reali» e in questi interstiti affonda non solo la ricerca scientifica ma quella storica e etica.
Bisogna porsi sempre domande perché sappiamo «persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta» (Wittgenstein).
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