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lunedì 2 giugno 2025

Il tempo immaginario: dialoghi con la AI


IL TEMPO IMMAGINARIO DIALOGHI CON LA AI

La “corrispondenza di amorosi sensi” tra filosofia, letteratura, arte e fisica è presente ne Alla ricerca del tempo perduto di Proust, nell'Ulisse di Joyce, e in fisica: nel primo caso la durée e la memoria dominano le pagine, nel secondo caso il flusso di coscienza dell'irlandese travolge il lettore, infine nel caso della fisica il tempo terrestre, nel buco nero, si annulla ed assume uno status del tutto differente dalla temporalità che sperimentiamo nella nostra vita.

Il tempo in Henri Bergson

La metafora dello “srotolamento del passato verso il rotolamento del futuro” rappresenta la visione lineare, continua e progressiva del tempo che si dispiega in modo sequenziale, con un passato che si accumula e un futuro che si avvicina: è il tempo spazializzato, omogeneo, calcolabile, misurabile e divisibile della scienza.


Bergson in contrasto con la concezione lineare e meccanicistica del tempo distingue tra il tempo spazializzato, la successione di istanti ed una temporalità come durata continua, irriducibile alla misura: è il tempo vissuto, indivisibile e qualitativo della coscienza in atto. 

Il tempo esperienziale di Bergson si dispiega in un passato-presente-futuro  che si compenetrano e fondono nel vissuto e lo chiama durée réelle, durata reale: il tempo è coscienza in atto, è l'élan vital, slancio vitale che coglie l’Essere come in Proust nel suo fluire incessante come un nuovo πάντα ῥεῖ eracliteo: «Il fatto che lo scampanellio c’era sempre e che così, tra di esso e l’istante presente, c’era tutto questo passato trascorso in modo indefinito, che io non sapevo di portare con me. 

Quando c’era stato lo scampanellio io esistevo già e, in seguito, perché io lo udissi ancora, era necessario che non ci fosse stata discontinuità, che neanche per un istante io prendessi riposo, io cessassi di esistere, di pensare, di avere coscienza di me».

Nel tempo come esperienza vissuta di Bergson e Proust ritroviamo noi stessi: siamo cose e memoria

Una topologia temporale dell’opera d'arte

Se Bergson contrappone il tempo vissuto al tempo spazializzato della scienza, Plescia considera i due piani temporali distinti dell'ontokairosia e dell'ontocronia: la kairoslogia dell’arte si oppone all’ontocronia tecnica della mondanità, pertanto esiste il tempo cronologico dell’epistemica e quello singolare e non misurabile dell’opera d’arte che non è un’entità chiusa e che si dà in un tempo proprio coincidente con il momento kairologico del suo “dis-velarsi”.

La creazione artistica non è ripetizione ma slancio vitale, élan vital, cioè emergenza del nuovo che non può essere dedotto da ciò che l’ha preceduto: in questa visione il tempo è trasformato in evento di coscienza e l’opera d'arte è durata incarnata, forma che emerge non per causalità ma per attanza poetante: “Ogni parola che nasce porta con sé l’infinito del tempo che l’ha generata”. (Plescia)

La dissoluzione del tempo si trasforma in estetica poetica del presente: ogni parola è traccia di un tempo che accade nel dire sé stesso: «Mi portai alle labbra un cucchiaino di tè dove avevo lasciato ammorbidire un pezzetto di madeleine. Ma, nello stesso istante in cui quel sorso frammisto alle briciole del dolce toccò il mio palato, trasalii, attento a qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me... questa essenza non era in me, era me stesso. Donde mi era potuta venire questa gioia potente? Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla? È chiaro, la verità che cerco non è in essa, ma in me. Il tè l’ha risvegliata, ma non la conosce... mi rivolgo al mio spirito. È compito suo trovare la verità... Il ricercatore, è al tempo stesso anche il paese oscuro dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. È di fronte a qualcosa che non esiste ancora e che solo lui può rendere reale. Cercare? Non soltanto: creare». (Proust)

Il tempo non è un contenitore o un dato assoluto, ma l'esito di uno sguardo poetico sul mondo, il tempo non è una sequenza ma la profondità dell'istante, in cui il presente è un’eco del passato e una soglia sul futuro in cui si accampano memoria e attesa: è l’"istante che dura".

La creazione artistica è un superamento del determinismo, una fessura attraverso cui l’essere può ancora “inventare” sé stesso ma questo non accade non nel soggetto, ma nell’evento ontopoietico dell’opera: la forma non è solo durata, ma destinanza.

Infine, il tempo è intreccio di relazioni, tra parola e silenzio, tra visibile e invisibile: le “immagini” di Bergson sono le cose di cui parla Proust: invisibili muri mutano posto in relatività alla forma della stanza immaginata intorno alle tenebre e prima che il pensiero riconosca l’abitazione, si ha il ricordo di ogni ambiente, il letto, le porte, l’esposizione delle finestre che si ritrovano al risveglio: la memoria, nel dormiveglia, è un chiasma.

La struttura multidimensionale del tempo

Là dove Heidegger tematizza il tempo non come successione ma come apertura dell’ente all’essere, Plescia articola una cronotopia metastabile dove l'essere si disvela attraverso fluttuazioni quantiche; ed immagina la cronotopia metastabile come condizione di emersione delle singolarità: il tempo metastabile di Plescia ricorda la temporalità originaria dell’Ereignis heideggeriano.

Plescia ripensa la temporalità non come una successione lineare di eventi, né meramente ciclica, ma erratica e come una struttura multidimensionale in cui il passato, il presente e il futuro coesistono in una sorta di simultaneità ontologica.

Il tempo di Plescia è un tempo-poesia e si oppone tanto al tempo come cronos quanto a quello teologico-lineare.

È il tempo dell’Estraneo, il tempo di Hölderlin e della temporalità deleuziana che rifiuta ogni concezione cronologica in favore di un tempo della differenza e del divenire.

Il tempo immaginario di Hawking i buchi neri e l'atemporalità

Nella visione classica di Newton, il tempo, come una freccia, si muove inesorabilmente dal passato al futuro.
Il buco nero sovverte il πάντα ῥεῖ, tutto scorre, di Eraclito in quanto in esso il tempo è statico, non fluisce: un vero e proprio paradosso per il mondo in cui viviamo.

Il tempo, sperimentato sulla terra, assume, nel buco nero uno status del tutto differente tanto da poter parlare di una dimensione "altra" ove non vige il presente, il passato ed il futuro.

Nel suo intervento alla Conferenza Internazionale di Firenze nel 1995, Stephen Hawking rivoluziona la comprensione dei buchi neri, da entità implosive a generatori di energia anti-entropica, gettanti flussi nell’universo e secondo la lettura di Plescia, Hawking introduce una rottura significativa con la concezione lineare e unidirezionale del tempo: una dimensione ove non vige il presente, il passato ed il futuro e il tempo diventa “immaginario” che, con la sua complessità è un simbolo delle possibilità, una visione del mondo in cui domina l'instabilità e il cambiamento.

Il modello di Hawking, nell'interpretazione plesciana, annulla la distinzione tra passato e futuro: è un tempo senza confini, un tempo pensato come una coordinata spaziale ovvero come le tre dimensioni spaziali: rappresenta una rotazione del tempo reale nel piano complesso e rende il tempo simile a una dimensione spaziale che attenua la singolarità dell'inizio cosmico: è una trasformazione come un evento ontologico: “il tempo immaginario è la soglia morfogenetica del possibile, è la cronotopia in cui la simultaneità del divenire trova forma.”

Hawking ha aperto la strada a una nuova ontologia, il tempo non è più un parametro fisso ma una dimensione dinamica e con profonde implicazioni per la comprensione dell'universo, della realtà e del nostro posto nel mondo: il modello mette in discussione le nozioni di causalità e di divenire.

Questa visione, elaborata nel 1995, anticipa e richiama la ricerca di Capozziello e De Bianchi per cui i buchi neri sono “senza tempo” infatti “Entrando in un buco nero, il tempo diventa immaginario” scrivono i due autori.

“I buchi neri non sarebbero divoratori di materia”, come finora si conveniva, pertanto le “particelle non riescono a entrare nel buco nero” e la materia si accumula intorno ad essi - scrive Capozziello - che aggiunge “Quando si cade verso un buco nero, la velocità si riduce a zero, la curvatura diventa finita ed è impossibile entrare in esso”.

"Se, oltre l'orizzonte degli eventi, il tempo diventa immaginario allora non è più possibile trattare il buco nero come un sistema dinamico e non è possibile, per un qualsiasi oggetto fisico, entrare in esso" (Capozziello).

E' improprio parlare ancora di “orizzonte degli eventi” che, alla luce di questa ricerca, è solo il punto in cui il tempo diventa immaginario: siamo di fronte ad uno status di atemporalità.

La cronotopia immaginaria di Hawking e la regione di Planck

I concetti di tempo di Hawking e Bergson illustrano il passaggio plesciano da una visione deterministica a una concezione dinamica e non lineare, in linea con la crisi dei fondamenti e l'emergere di una nuova ontologia della physis, un' esplorazione della natura che da un'idea di ordine e stabilità assume una visione intrinsecamente caotica, in divenire: un processo aperto e imprevedibile.

Tra la cronospazialità immaginaria di Hawking e la topologia fluttuante delle dimensioni di Planck (10⁻³⁵ m) Plescia individua una “discrasia”, un vuoto teorico e ontologico.

Il vuoto fluttuante non è il nulla della Gelassenheit, ma un kaos ontogenetico dove l’essere stesso si dà come evento quantico.

Questo vuoto è il “chaosmos”  che - reso celebre da James Joyce, reinterpretato da Gilles Deleuze e Felix Guattari per i quali il divenire è senza fondamento - trova, in Plescia, una densità ontologica per cui il chaosmos è physis animata, materia vivente e pensante, soggetta a variazioni topologiche.

In questa visione, il chaosmos non è solo molteplicità differenziale, ma anche luogo della morfogenesi subquarkica e viene riattivato in una veste ontologica: un’entità infinitamente piccola e infinitamente grande, diveniente e metastabile.

Da oggetto implosivo, il buco nero si trasforma in fenomeno estetico e metafisico, l’orizzonte degli eventi, impenetrabile, diviene: “la soglia dell’inconoscibile, la superficie ek-statica del tempo, dove la materia implode nel vuoto e dal vuoto genera.”

Si può parlare di chiasma ipospaziale: un nodo topologico dove la singolarità non si dissolve, ma si ricompone come campo, lì si trovano le superstringhe morfogenetiche, configurazioni quantiche che agiscono da ponte tra universi o tra diverse topologie di tempo.

Con riferimento alla costante di Planck e alla teoria delle superstringhe di Veneziano, si ipotizza che ogni buco nero contenga in sé un meta-modello metabolico, cioè una struttura generativa capace di nutrire l’universo con energia.

I concetti di tempo immaginario, chiasma ipospaziale e singolarità creano, secondo Plescia, un impianto teorico dove quantistica, topologia e filosofia si incontrano.

La dissoluzione del tempo assoluto e la quantistica

Nella quantistica, il tempo non esiste più come entità assoluta ed emerge dalla relazione tra sistemi fisici e tra eventi: non è più uno sfondo oggettivo.

Il tempo assoluto e lineare è ripensato da Rovelli come un tempo emergente e di relazioni tra eventi è la loop quantum gravity per cui tempo e spazio sono quantizzati.

La quantistica in Rovelli è una teoria relazionale: non esistono entità assolute ma solo relazioni; in modo simile, Plescia concepisce gli eventi quantici come nodi in un campo di interazioni: le singolarità chaosmiche non sono oggetti, ma configurazioni dinamiche interpretabili.

La teoria relazionale risuona nella descrizione plesciana delle singolarità chaosmiche: entità senza sostanza stabile, che emergono da una rete di relazioni ma l’ontologia relazionale viene tradotta in un’ontogenesi supersimmetrica e morfogenetica.

Le entità quantiche, per Plescia, non sono sostanze fisse, ma eventi metastabili che si disvelano attraverso un campo di interagenze come accade in Rovelli alle proprietà degli oggetti ma che esistono solo in relazione ad altri oggetti e non come attributi assoluti.

L'ontoquark, considerato da Plescia, come attante ovvero come soglia di emersione ontologica, risuona con l' evento relazionale: ciò che esiste è il nodo nella rete, non il punto assoluto.

Per Plescia l’evento è già carico di senso ontologico, già interpretazione: non c'è realtà senza un principio ermeneutico inscritto nella physis.

La morfogenesi quantistica e la trivarietà

Le strutture chaosmiche si manifestano come trivarietà fluttuanti, luogo di emergenza di eventi subquarkici e virtuali: entità che si costituiscono come singolarità ontologiche nel campo delle possibilità.

Queste varietà sono il teatro di una morfogenesi quantica, dove entità virtuali: arkquark, ontoquark e archiquark prendono forma, orbitano e si dissolvono, costituendo l’ossatura ontologica del vuoto quantico.

La morfologia quantica delle trivarietà chaosmiche è inscrivibile nell'ambito della riflessione sul tempo originario e sull’evento dell’Essere, Ereignis, di Heidegger.

Le trivarietà sono dispositivi ontogenetici, simili all'Ereignis heideggeriano, ma radicati nella physis piuttosto che nel linguaggio.

L’ontologia quantica di Plescia è un ermeneutica della physis come fondamento instabile, come abisso da cui sorge ogni forma: un tentativo di procedere oltre l’Essere heideggeriano.

Attraverso queste morfologie, si può pensare una filosofia della fisica del vuoto: non più spazio neutro, ma un campo ontologico pulsante, un caos animato dove le interazioni fondamentali - elettromagnetica, nucleare forte, debole, gravitazionale - si disvelano come configurazioni temporanee di una realtà fluttuante.

L’uso di termini come “attanti” e “attrattori”, sono mutuati dalla semiotica e rilanciati in un contesto quantistico: gli arkquark sono definiti come attrattori quantici: centri di morfogenesi che danno forma a stati fluttuanti, gli ontoquark invece sono attanti: soglie di emersione ontologica, eventi che portano all’esistenza le singolarità metastabili.

Questa coppia concettuale, attante/attrattore, costituisce la dinamica fondamentale dell’ontologia chaosmica: un movimento tra virtuale e reale, tra morfologia e indeterminatezza, tra visibile e invisibile.

L'idea di divenire come evento privo di fondamento trova un'analogia nel concetto deleuziano di singolarità, gli arkquark e ontoquark sono eventi ontologici, sono i nuovi singolari deleuziani: non individui, ma processi ontologici, forze differenziali.

La dimensione del divenire in Deleuze, non è più semplice flusso per Plescia ma instabilità metastabile, caos fluttuante e virtuale che si dà solo come forma emergente.

Il chaosmos, in Deleuze, è l’ordine implicito nel disordine, una sorta di sintesi del molteplice, per Plescia è la matrice dinamica da cui scaturiscono gli eventi quantici: attrattori e attanti, morfogenesi e trivarietà: strutture topologiche a tre dimensioni, animate da fluttuazioni quantistiche e supersimmetriche.

Plescia assume l’infinità dell’universo come condizione dell’ontologia quantica: ogni ontoquark genera strutture caosmiche, ogni trivarietà è un campo di forze in trasformazione, ogni singolarità chaosmica è un evento dell’essere che si apre e si richiude nel campo di una supersimmetria immaginaria.

ll concetto di universo infinito e la centralità del fuoco divino come forma del divenire in Bruno, ritornano trasformati nei morfoquarks, nei gravifotoni, nelle trisfere animate e richiamano la struttura dell'universo bruniano, dove ogni punto dell’universo è centro e periferia, nodo dell’infinito mai fisso e metamorfico.

La realtà viene così pensata come animata, in un’unità di physis e intelletto.

Il Principio di Indeterminazione ed il chaosmos

Il chaosmos invita a un esercizio estremo del pensiero: abitare il vuoto, dare senso all’instabile, attraversare le pieghe del tempo immaginario e delle forme virtuali: pensare l’infinitesimo, abitare l’instabile.

In questo contesto: il Principio di Indeterminazione non viene inteso come limite alla misura, bensì come una condizione generativa, un principio d’interpretanza: in questo modo, si arriva ad una riformulazione ontologica del Principio di Indeterminazione che diventa un' ermeneutica: l’indeterminatezza è apertura semantica.

L’indeterminatezza fonda una grammatica del divenire, un'ontologia della possibilità pura, in cui le forme emergono dal nulla metastabile del chaosmos: diventa modalità propria dell’essere quantico nella quale si dà la possibilità di una interpretazione morfologica del reale subquarkico in cui il vuoto è pensato non come assenza, ma come campo di potenzialità morfogenetiche.

Se Heisenberg afferma che l’osservazione modifica il fenomeno, Plescia sostiene che l’indeterminatezza è il linguaggio dell’essere, il modo in cui la realtà si mantiene aperta all’evento.

Non si tratta più di interpretare la quantistica come teoria fisica, ma di assumerla come ermeneutica dell’essere.

Conclusione

La proposta di un' ermeneutica quantistica che propone è una topologia del possibile, in cui ogni forma è una fluttuazione, una possibilità che si dà e si ritrae, capace di pensare il vuoto come chaosmos - rielabora e supera visioni provenienti dalla filosofia e dalla scienza: un tentativo di fondare una nuova ontologia quantica, in cui il vuoto fluttuante diviene luogo di eventi morfogenici, chaosmici e supersimmetrici.

Il fine ultimo di questo discorso non è solo descrittivo ma filosofico: si vogliono delineare i contorni di una ontologia quantica ed anche un appello a costruirla.



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