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mercoledì 11 giugno 2025

La desideranza, lo spazio e la chōra


La desideranza, lo spazio e la chōra

La desideranza, lo spazio e la chōra: Dialoghi con la AI

La desideranza, neologismo che fonde “desiderio” e “erranza”, non è una semplice derivazione da “desiderio”: la desideranza è simile allo slancio vitale, élan vital di Bergson, una forza intrinseca alla materia, una tensione, un flusso creativo che non riporta al desiderio inteso come mancanza della tradizione psicoanalitica freudiana o lacaniana: non si desidera ciò che manca, ma che produce connessioni, mondi, eventi.

Il desiderio come ontologia del possibile rimanda sia alla cupiditas di Spinoza, per cui è l’essenza stessa dell’uomo come sforzo di esistere, conatus come forza di autoaffermazione che plasma il mondo, sia a Deleuze e Guattari che in l’Anti-Edipo concepiscono il desiderio come macchina produttiva.


La desideranza non è progettazione lineare, è movimento immaginale dello spazio, è atto performativo come il gesto dell’artista o del poeta che trasforma il luogo in evento.

La città come corpo desiderante

La chōra platonica come spazio ricettivo del divenire, nel Timeo, come matrice accoglie forme senza definirle, in modo simile l’architetto e il pensatore diventano chōristès, coloro che preparano ed accolgono lo spazio dell’evento.

La città non è solo l’insieme delle sue funzioni e costruzioni, oggetto di pianificazione razionalistica ma un corpo mitico e simbolico, plurale e desiderante, materia vivente di tensioni immaginali dove risuonano affetti, memorie, topoi arcaici, flussi di desiderio.

Marginalità e soglia: poetiche del bordo

Se la città moderna si era costruita sull’ordine, sulla funzione e sull’efficienza, la città post-industriale appare invece come uno spazio sospesoun campo latente di possibilità, dove la rovina non è solo traccia di un passato esaurito, ma matrice di un futuro non ancora pensato.

La città post-industriale è soglia, bordo, in essa gli interstizi, i vuoti urbani, i margini, diventano gli spazi estetici per eccellenza, dove il pensiero poetico può manifestarsi.

Abitare non è più riempire, ma ascoltare il silenzio dei luoghi, accogliere le pieghe del tempo, seguire i flussi invisibili della memoria: la progettazione si sposta dal centro alla periferia, dalla forma al margine, dal pieno al vuoto.

Tutto ciò implica un capovolgimento epistemico: non si progetta il futuro, ma si scava l’origine, si ascolta l’invisibile, si accoglie l’imprevedibile.

La desideranza e il vuoto

La città è solo dormiente, attende un risveglio, un atto di pensiero che la dischiuda ad un'ontologia generativa e poetica dello spazio: la desideranza è l'abitare poeticamente il vuoto che, a sua volta, è l’altro polo della desideranza: desideranza e vuoto emergono come due forze intrecciate, capaci di sovvertire le categorie consuete dello spazio.

Desideranza e vuoto, disegnano una poetica del possibile, convergono in una nuova etica ed estetica del costruire e, come in un’opera di arte concettuale, il bello non è più forma armonica, ma emergenza del possibile dal caotico.

Il vuoto urbano non è più negazione, mancanza ma presenza latente, potenza generativa, è campo di fluttuazioni simboliche, ricco di risonanze e tracce invisibili simile al vuoto quantistico attraversato da fluttuazioni, materia e campo in potenza dove particelle e antiparticelle emergono e svaniscono, matrice invisibile di particelle, non-zero field.

La desideranza non si applica al soggetto, ma al luogo stesso: il vuoto non è spazio da colmare, ma ambito di manifestazione del desiderio, un aprirsi a ciò che ancora non è stato, il vuoto pulsa, attende, la città con le sue rovine non è la fine, ma l’inizio di un’erranza del pensiero, un laboratorio per l’essere, una soglia verso il possibile.

Lo spazio

Lo spazio urbano, marginale, silenzioso, abbandonato, diventa luogo soglia - come l’opera d’arte per Gadamer dove si gioca l’incontro tra essere e tempo, tra memoria e desiderio - aspetta un gesto poetico per riemergere per essere attivato esteticamente come spazio di rivelazione.

La différance di Derrida, come dislocazione e apertura differita, trova un parallelo nell’erranza spaziale, l’agencement di Deleuze si manifesta come forma di connessione fluida tra soggetti e ambienti, si avvicina all’idea bachelardiana dello spazio come materia poetica: spazio vissuto e abitato poeticamente, in rapporto alla rêverie e non come dato geometrico.

Lo spazio urbano post-industriale, nella sua desolazione, riattiva quindi un’esperienza liminale: è nello spazio abbandonato che si riaccende il possibile: il gesto creativo è una modalità di pensiero e della costruzione, contro la rigidità dell’urbanistica funzionale.

L'utopia, la distopia e la desideranza

L’utopia richiama sia l' esercizio di imaginatio di Paul Ricoeur che smonta l’ideologia: progettare significa interpretare il presente per attivare visioni ed aprire al possibile, sia l'à venir, l’avvenire come evento a-venire di Jacques Derrida, mai disponibile, sempre oltre la presenza.

L’utopia non è solo progetto futuro, ma memoria riattivata nel presente.

Nel polemos eracliteo si vede l’origine del divenire, lo spazio urbano disgregato non è solo perdita, ma nascita di senso attraverso il conflitto, il caos non è assenza, ma campo di virtualità la distopia non è solo crisi o negazione, ma spazio critico di emersione, luogo di rigenerazione simbolica.

L’abbandono urbano è grembo dell’imprevisto, la distopia post-industriale si fa matrice di desiderio, diventa campo di lotta simbolica, spazio di contesa tra memoria, potere e desiderio: nuova progettualità utopica.

Si propone una “Distopia/Desideranza” come ossimoro produttivo: la città, esaurita nella sua funzione funzionalista e produttiva, entra in una crisi di senso, ma proprio questa frattura genera una nuova possibilità immaginativa: la nozione unisce due polarità contraddittorie: la rovina urbana post-industriale e la tensione utopica che da essa può scaturire.

Il progetto

Il progetto non modella lo spazio, ma evoca presenze, come nel gesto artistico, è un comporre con il vuoto, una poetica dell’abitare, un abitare nel possibile: il progetto come pòiesis, atto poetico e generativo dello spazio, visione dove tutto converge nella nozione del progetto come atto poetico.

La progettualità si configura come etica del progetto, dell’ascolto e dell’attesa, in un tempo kairologico e non cronologico: un atto ermeneutico e performativo.

Il progetto non è costruzione funzionale ma atto mitopoietico, e come in Aristotele è phantasia: potenza immaginativa del sensibile.

Progettare significa disattivare l’ideologia del controllo, restituendo al luogo la sua apertura alla trasformazione, alla risonanza, alla differenza come per nel nomadismo deleuziano, inteso come pensiero rizomatico e movimento anti-gerarchico.

E' una proposta non solo teorica, ma critica: invita a progettare non il mondo che già c’è, ma quello che ancora non si è lasciato pensare.

L’architettura

L’architettura si fa evento, soglia, piega (Deleuze-Foucault) e come nel caso della dérive di Guy Debord il vagare urbano rifiuta la cartografia del potere per riscoprire psicogeografie affettive e simboliche infine, come nell’aletheia heideggeriana, il dis-velamento avviene solo nell’abbandono del dominio tecnico.

L’architettura non modella lo spazio: ma evoca presenze, si fa gesto fragile e forte, ascolta ciò che non si vede e fa ritorno all’invisibile.

Non si costruisce più sul pieno, ma intorno al vuoto, lasciandosi guidare dall’erranza desiderante del luogo stesso.

Una forma radicale di pensiero spaziale che, nel tempo delle rovine, apre lo spazio al futuro all’imprevisto, ad un'ontologia poetica dello spazio.

L’archematica come ἀρχή

Archematica della Distopia/Desideranza Spaziale Post-Industriale richiama sia Eraclito, con la sua idea di un mondo in perenne divenire e tensione, sia l'ápeiron di Anassimandro come principio indeterminato e generativo del mondo e la centralità dell’Ort, luogo, come apertura dell’essere Ort-stiftung, in Heidegger, dove la cosa, Ding, diventa spazio per la presenza.

L’Archematica non è né una disciplina canonica né una mera sintesi tra archeologia e matematica dello spazio, ma una forma archetipica del pensiero spaziale: è scienza dell’arché, ἀρχή, principio originante, condizione originaria, invisibile ma operante, dei luoghi che si configura come una metafisica creativa dello spazio.

L’“archematica” si propone come lettura critica e progettuale dello spazio fondata non su norme funzionali, ma su ritmi cosmici, simbolici e archetipici: è metodologia di un'ontologia poetica del costruire, fondata su relazioni, piegature, slittamenti: non più il top-down, ma una ripartenza dal basso, dal margine, dall’infrasottile.

Non si tratta di fornire modelli ma superare ogni forma di urbanistica meccanica o sociologica. per immaginare una genealogia dell’abitare, fondata sull’ascolto del vuoto, sulla densità temporale del luogo, sull’"evento".

Conclusione

Archematica della Distopia/Desideranza Spaziale Post-Industriale, sfida le convenzioni disciplinari attraversa e supera le consuete categorie dell’urbanistica, dell’architettura e della pianificazione territoriale, il progetto teleologico dei modelli del Novecento.

In tempi di crisi ecologica, simbolica, spaziale della città post-industriale questo pensiero è più che mai necessario: indagarne le condizioni archetipiche, affettive, estetiche, mitopoietiche. non per costruire nuove utopie, ma per pensare il mondo dal suo stesso margine.

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