giovedì 30 maggio 2013

L'arpa, la rosa, il tempo di Camilla G. Iannacci


                                                     

                                                             


L'arpa, la rosa, il tempo             


La luce del giardino di rose posava lievi ombre sul capo della visitatrice, illuminato dalla lampada che, sapientemente, Cher Dehauser aveva collocato a lato del Monet più amato: gli ospiti, nell’osservare la tela, offrivano modulazioni del volto e sguardi preziosi che, insieme al racconto degli eventi, permettevano all’avvocato 'un primo scavo dei materiali' come lei andava ripetendo al suo assistente di studio. Parlava sempre per prima di sé Cher e sol quando avvertiva dimentico del luogo e delle ragioni il visitatore, chiedeva:
- Che cosa fa nella vita? Ah sì, pensi amo la musica e lei suona: beata lei.
O simili varianti: così quel pomeriggio.

George, il suo collaboratore, ormai conosceva l’arte finissima di colei che, non solo al Palazzo di Giustizia, era chiamata ‘l’imperatrice dei segni’. Il suo sguardo sembrava quasi assente ma non era simulazione, come dicevano i suoi malevoli collegi, tesa a far scoprire il gioco altrui. No: era lo sguardo affinato e cristallino di chi, a lungo, ha studiato l’arte e l’arte dei segni: un occhio - luce, come, vezzosamente, amava pensare di sé Cher.

Lesse la lettera e imperturbabile disse:
- Il suo lavoro? Sì? Pensi ho una figlia che ha appena finito il liceo.

L’ospite fu subito affascinata dalle parole dell’avvocato, e, ormai dimentica del perché si trovasse lì, fu colta da:
- Cos’è l’arpa? Solo uno strumento musicale?
Aveva fatto centro l’avvocato?

L’interlocutrice parlò, senza incrinature di voce, con calma ma all’avvocato non fuggì il gioco di luci e ombre tra l’occhio e il naso: chi era veramente la sua visitatrice?
Era presto dare una risposta per qualunque legale. Ma l’avvocato non era un legale.

Come poteva esserlo colei che studiava le carte dei processi passando giorni interi nei musei o sui libri di fisica che parlavano di teorie del caos con le loro improbabili farfalle il cui battito d’ali causava, ancora più singolari, uragani in altri parti del mondo?
-Sciocchi i miei colleghi - diceva e continuava i suoi giri museali e le letture dell’indicibile e dell'indecidibile.

Sì, ci sono realtà che sono né vere né false ma indecidibili. Dehauser aveva scelto: il caso era suo. Ma si guardò bene dal comunicarlo, nel congedare la sua ospite fu cordiale e dolce, come sempre, ma il suo sorriso era ancora più luminoso del solito e inondò lo sguardo della sua inconsapevole assistita.

- Uno sguardo fragile ma non facile - pensò l’Avvocato - sarà lei a dirmi come sono andate le cose. Meglio non chiedere niente, saprò aspettare e colpire al momento giusto. Ora ho già molti segni da decifrare: 'sono o non sono l’imperatrice dei segni'? I segni: un sorriso dolorante ma giocoso, le cadute di umore, una mente viva e vigile che domina le emozioni.

-Sì, una persona non facile e le persone non facili a me piacciono: quasi quanto me.
Sorrise annodando, nello chignon dei rossi capelli, un nastro rosa.
-Un caso singolare, indecidibile e caotico - sentenziò.

Sì, amava la sua professione che le dava la possibilità di incontrare i tormenti più intimi delle persone per curare… i propri. George era ben felice di vivere accanto all’avvocato, così generosa di consigli e sapienza, che gli forniva materiale, di prima mano, per dei romanzi veri e propri bestseller internazionali.

Non sapeva George che avrebbe, di lì a poco, scritto il best-seller più straordinario della sua vita.
Posò i pennelli Cher e si riflesse sulla tela: l’autoritratto era ancora informe eppure lei si riconobbe.

Forma e non forma’, ‘ vero e non vero’: erano i due piani su cui, continuamente, si scontrava nella sua pratica legale.
E la pittura l’aiutava molto a orientarvisi e andare oltre il visibile.
I colori li preparava con amore assoluto: era delizioso osservarla nella mescita delle terre e dei colori freddi.
La cifra della sua pittura era proprio tutta nel colore: campiture alte e lievi trasportavano l’osservatore in atmosfere metafisiche eppure così reali.
Paesaggi e fiori, in modo particolare le rose, erano i suoi soggetti prediletti. 
Le stesse rose che coltivava e innestava nel suo giardino, al riparo da occhi indiscreti.

Sì, l’avvocato Dehauser non era un semplice legale.
-E’ per questo che vinco sempre in tribunale, amava ripetere in cuor suo: si guardava bene dal dirlo apertamente: il pudore di sé era assoluto.

Cher era consapevole che i codici andavano decrittati come tutti i testi e i segni. E non al loro interno, quindi con elementi autoreferenziali, ma, all’opposto, attingendo ad altri sistemi interpretativi.

Niente di meglio, in questo senso, che coltivare rose e crearle con finissimi innesti e dedizione: ' la rosa vive di per sé , non chiede di essere vista: è senza perché ' ripeteva, con Silesio, la nostra Cher.

E il ' senza perché' molte volte l’avvocato incontrò, come - 'il male di vivere di Montale' - aggiungeva, nel silenzio, della sua veranda.
Il suo lavoro era l’incontro col dolore altrui.
E l’ascolto dell’altrui sentire, in cui eccelleva oltre ogni pensare, le permetteva di relazionarsi con l’ombra, l’oscuro umano, l’altro da sé eppure il se stesso: l’ ombra che dava consistenza, sfumature e visibilità alla luce e alle forme della sua stessa pittura.

Il ‘ Caso Arpa’ che le fu donato, come ormai si andava convincendo, racchiudeva ed esaltava la cifra della sua pittura e il senso stesso del suo coltivare rose: non era solo un incarico ma un vero e proprio ‘evento’ nel senso heideggheriano del termine. 
Sì, proprio così: Cher, in gran segreto, leggeva di filosofia.

Chi la chiamava ' l’avvocato' di lei non aveva colto proprio nulla.
Quel nulla, sì, proprio il nihil, così costitutivo dell’esistenza e del ‘Caso Arpa’ in particolare.
Il nulla della poesia: la sua, i suoi versi inattuali, inutili come l’arte.
Sì, Cher era anche una poetessa. Un’artista, lo era sempre stata.

L’avvocatura era un modo di essere nel sociale, di essere accolta dal senso comune che rifugge dal significato profondo delle cose. Dall’arte.

L’'Arpa - File' si aprì velocemente: Cher non proferì pensiero o parola alcuna.
La meraviglia la dominò tutta e l'avvolse come il lungo brivido per le mani del suo compagno sulla nuca: quasi non respirò tra le sue braccia.

L’irish-coffe, shakerato con sapienza antica, sorseggiò lentamente ancora distesa sul divano e più luminosa: dopo l’amore; amava l’amore Cher, sempre e comunque, come il suo lavoro.
Perché mai il suo sapere, la sua saggezza e, soprattutto, il suo sentire la 'risonanza' di persone e cose non erano più sufficienti a orientarla nel 'Caso Arpa' ?
La risposta non venne.

Chiuse gli occhi, come per recuperare energie ma continuò a brancolare nel buio.
-Ecco -si disse- nel buio, sì, certo, devo attraversare le tenebre: quasi una discesa agli inferi e senza guida alcuna se non me stessa e l’etimologia… sì… sì… l’etimologia… arpa… arpie… sirene… sì… ci sono…

Rilesse l’'Arpa-File' e le mail incriminate.
'Le prove' come le chiamava il suo collega.

-Ma che prove e prove, bofonchiò Cher, il mito ha bisogno di prove per esistere?
Le melodiose sirene incantano e uccidono, col canto soave, chiunque approdi: le arpie erano delle sirene e 'apazo' significa 'afferro - rapisco'.
Cher ormai era parte in causa e non nel senso legale.

Le interpretazioni date di quelle lettere erano così intrecciate agli eventi da essere costitutive degli stessi come... i percorsi della narrazione mitica.

Cher era un’interprete, suo malgrado, del 'Caso-Arpa' come tutti gli altri – ma… non come gli altri - gridò forte e decisa.
Il racconto era mito ma il mito si alimenta del racconto e delle interpretazioni: mito, eventi e interpretazioni: non solo quelle giurisprudenziali.
No, interpretazioni nel senso proprio di ermeneutica.
E Cher era l’ermeneuta per eccellenza e del 'Caso Arpa' in particolare.

La sua visitatrice, le era chiaro, era stata afferrata dall’effetto specchio: la proiezione del sé nell’altro e a ritroso nel tempo: un ritorno ai suoi anni giovanili.
-Forse potrò aggiungere un altro significato al mito - gongolava Cher - sirene come specchio del sé, come ritorno del tempo antico.

Ma il dubbio, parte della sua professione, fece capolino sotto la doccia: Cher ne uscì ristorata ma non più persuasa.
-Il mito non ha forse altri significati? E se la verità fosse un’altra? Sì, certo é un’altra - si disse.
-Forse la mia ospite continua a nascondere qualcosa. Ma ancora non per poco - pensò convinta di sé come non mai Cher - parlerà, oh se parlerà. Non resiste alcuno e il mio silenzio, la mia attesa la stanno rassicurando tanto da aver lei bisogno di confidarsi.

Le chiederò delle poesie...

Silenziosa, assente
attesa:
l’eco
la mente
spaura:
risuona del tempo la voce:
presente.

E l’arpa, come ogni strumento musicale e come la musica, non era forse intrecciata strettamente al verso?

-L’Arpa e il verso meritano una riflessione più accurata- si disse Cher mentre s'immerse nella lettura e interpretazione dell’ultima poesia - sì certo... è chiaro… voce in senso di voce dello strumento musicale e dell’arpa e... nel senso di voce amata e, perché no, di voce della sirena.
E poi l’accenno al tempo era l’effetto specchio e il ritorno ai propri vent’anni.
Cher era estasiata: l’amore per la parola e per i suoi significati la teneva prigioniera.

L’amaca dondolava nell’angolo bar dello studio, la pipa, ormai spenta, riempiva di dolci sapori la stanza: George Chiss sorseggiava l’ultimo bicchiere di cabernet, il suo vino, sì proprio suo: era un fine enologo e curava personalmente la sua tenuta.
-Ha corpo, dolcezza, un perlage amorevole, vero Cher ? Non mi ascolti, come sempre!

Sì, Cher non dava mai a intendergli di ascoltarlo, 'ma solo per legittima difesa’… amava rispondergli.
Teneva in grande considerazione il suo George, come lo chiamava in privato, e non voleva cadere nelle sottili trame che quella mente, sensibile e acuta, tesseva con abilità invidiabile.
Conosceva i segni, Cher: la pipa, il vino, l'abbandonarsi sull'amaca erano segni inequivocabili.

Chiss era pronto a coglierla in fallo.
-Cara Cher...

-Ci siamo – pensò, subito, l’avvocato.

-Mia cara, vedi, ho letto le tue considerazioni e ho seguito il tuo tormento per questo caso e ti sono vicino ora come non mai, ma non devi arrovellarti ancora per molto… non credi che ne dobbiamo parlare, confrontarci e confortarci anche?

Sì, senza George, Cher si sentiva vulnerabile ma con George non era facile misurarsi.
Egli non era solo un valente socio, un enologo di chiara fama, profondo conoscitore delle pieghe più riposte dell’animo umano ma un… 'gattuomo': il miglior complimento che Cher poteva, in cuor suo, fargli.
Aveva un quid, il suo Chiss, che l'avvocato avrebbe voluto possedere ma invano.

Vederli insieme non era possibile, conservavano solo per se stessi quei momenti di lavoro e di confidenza, d' intesa e complicità commoventi.

-Un gattuomo, vero Cher? Lo vedo dai tuoi occhi che mi hai già apostrofato. E tu sei una strega e hai stregato la nostra visitatrice: non ne lasci una! Strega, strega.
Gridava George girando intorno al tavolo dov’era seduta Cher, come un bambino gioioso e felice di sé e di lei.
-Ti prego fermati George, rideva Cher.

George sprofondò nel divano, rosso in volto, col ciuffo scomposto e ancora giocoso.
Cher lo guardò con indulgenza e felicità per quell’uomo che il caso volle farle incontrare ma che le sembrava aver sempre conosciuto.

- Cher forse non abbiamo valutato questa liaison intellettuale con la dovuta perspicacia e abbiamo perso di vista il tempo che non è solo grande scultore ma creatore e dissolutore di forme.

- George m'inviti a nozze! Sai quanti testi ho licenziato sul tempo…

- Per questo, per questo te ne parlo dolcissima donna: il tempo musicale e del Caso Arpa e della visitatrice: tutto si tiene, non credi?
Il tempo e non solo l’essere ma il nulla... l’incontro con l’altro è l’esperienza del nulla.
Sì, Cher è così: il tempo andato e presentificato è l’incontro col nulla, con ciò che più non è ma persiste, c’ è.

E George fece andare il cd con ‘As Time Goes By’ del film, un classico, come si scrive, con Bogart e Bergman.

Cher chiuse gli occhi e Marco le apparve, seduto sullo scoglio, nero di sole e luminoso e numinoso nei suoi venticinque anni.
Marco era lì: evocato dalla musica, dal suono del verso, dalla parola, dal tempo.

George Chiss continuò a parlare, Cher era in trappola: non era riuscita a sciogliere l’enigma del 'Caso Arpa' che era anche il caso Cher: un incontro col tempo circolare, col proprio sé andato, con la memoria e il ricordo. 
E rivide lo sguardo e risentì la calda risata di Marco e lei che correva, splendente nei suoi vent'anni, sulla sabbia per fuggirgli e farsi trovare.

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