domenica 2 settembre 2018

K.MARX A COLORI:IL CAPITALE,LIBRO 1^: Capp.6^-7^-8^- 9^-10^ a 200 anni dalla pubblicazione





   

CAPITOLO 6
CAPITALE COSTANTE E CAPITALE VARIABILE

CAPITOLO 7 
IL SAGGIO DEL PLUSVALORE  
IL GRADO DI SFRUTTAMENTO DELLA FORZA-LAVORO.

CAPITOLO 8
LA GIORNATA LAVORATIVA
I limiti della giornata lavorativa.

CAPITOLO 9
SAGGIO E MASSA DEL PLUSVALORE

SEZIONE IV
LA PRODUZIONE DEL PLUSVALORE RELATIVO

CAPITOLO 10
CONCETTO DEL PLUSVALORE RELATIVO

CAPITOLO 6

CAPITALE COSTANTE E CAPITALE VARIABILE


I differenti fattori del processo lavorativo prendono parte differente alla formazione del valore del prodotto:

l'operaio aggiunge nuovo valore all'oggetto del lavoro, mediante l'aggiunta della sua quantità di lavoro,
fatta astrazione dal contenuto determinato, dallo scopo e dal carattere tecnico del suo lavoro,
ritroviamo come parti costitutive del valore del prodotto i valori dei mezzi di produzione consumati:
es. nel valore del refe, i valori del cotone e del fuso.

il valore dei mezzi di produzione
viene conservato tramite il suo trasferimento nel prodotto
trasferimento avviene nel processo lavorativo durante la trasformazione dei mezzi di produzione in prodotto,

l'operaio non fa un lavoro duplice nello stesso periodo di tempo: non lavora
per un momento ad aggiungere un valore al cotone col proprio lavoro,
per un altro         a conservare il vecchio valore di questo,
ossia, il che è la stessa cosa
trasferire il valore del cotone che lavora e del fuso col quale lavora nel prodotto, che è il refe;
ma conserva il vecchio valore mediante la semplice aggiunta di nuovo valore.






BILATERALITA’

siccome
l'aggiunta di nuovo valore all'oggetto del lavoro e la conservazione dei vecchi valori nel prodotto
sono due risultati, prodotti nello stesso periodo di tempo dall'operaio, completamente differenti
questa bilateralità del risultato può essere spiegata solo con la bilateralità del suo stesso lavoro:
per una qualità     il lavoro deve creare valore
per un'altra          deve conservare o trasferire valore, nello stesso istante:

l’operaio aggiunge tempo di lavoro e quindi valore, nella forma del suo modo particolare di lavoro:
il filatore aggiunge tempo di lavoro solo filando,
il tessitore solo tessendo;

ma i mezzi di produzione -cotone e fuso, refe e telaio, ferro e incudine –
diventano elementi costitutivi d'un prodotto, d'un nuovo valore d'uso

? mediante la forma idonea a un fine nella quale filatore, tessitore,
aggiungono lavoro in genere
quindi nuovo valore:

la vecchia forma del loro valore d'uso trapassa, solo per passare in una nuova forma di valore d'uso.


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Nell’analisi del processo di formazione del valore è risultato che,
in quanto un valore d'uso è consumato per la produzione di un nuovo valore d'uso,
il tempo di lavoro, necessario per la produzione del valore d'uso consumato,
costituisce una parte del tempo di lavoro necessario per la produzione del valore d'uso nuovo,
dunque
quel che vien trasferito dal mezzo di produzione consumato al nuovo prodotto, è il tempo di lavoro.
dunque
l'operaio conserva i valori dei mezzi di produzione consumati
cioè li trasferisce nel prodotto come parti costitutive del valore,
non attraverso la sua aggiunta di lavoro,
ma attraverso il carattere utile particolare, attraverso la forma produttiva specifica di questo lavoro aggiuntivo.
il lavoro
anima              i mezzi di produzione a fattori del processo lavorativo
si combina      con essi in nuovi prodotti,
                        solo in quella qualità di attività produttiva idonea a un fine: filare, tessere, battere il ferro.
dunque
l'operaio aggiunge valore al materiale
- mediante il suo lavoro
- non in quanto si tratti di lavoro es. di filatura  
- ma in quanto si tratta di lavoro astratto, sociale in genere;

l'operaio aggiunge una data grandezza di valore
- non perché il suo lavoro abbia un particolare contenuto utile
- ma perchè dura un tempo determinato,

dunque
il lavoro del filatore
-aggiunge neovalore ai valori del cotone e del fuso,
nella sua qualità astratta e generale, come dispendio di forza-lavoro umana; 
-trasferisce il valore di questi mezzi di produzione nel prodotto,
conservandone così il valore nel prodotto, nella sua qualità utile, concreta, particolare di processo di filatura;

di qui la bilateralità del suo risultato: nello stesso istante.

Con l'aggiunta quantitativa di lavoro si aggiunge nuovo valore,
con la qualità del lavoro aggiunto vengono conservati nel prodotto i vecchi valori dei mezzi di produzione

se per es. qualche invenzione permetta al filatore di filare in 6 ore tanto cotone quanto ne filava in 36
il suo lavoro come attività idonea-produttiva ha sestuplicato la propria forza: il suo prodotto è un sestuplo: 36 qli. di refe invece di 6 qli.
i 36 qli. di refe assorbono il tempo di lavoro che prima ne assorbivano 6;
viene loro aggiunto un sesto di lavoro nuovo di quanto accadeva col vecchio metodo: un sesto del valore di prima;
dall’altra parte nel prodotto, nei 36 qli. refe, c'è un valore sestuplo di cotone.
Nelle 6 ore di filatura viene conservato un valore di materia prima sei volte più grande
che viene poi trasferito nel prodotto,
benché allo stesso materiale venga aggiunto un neovalore sei volte minore.

Questo mostra come
la proprietà per la quale il lavoro conserva valori durante il medesimo processo
sia distinta dalla proprietà per la quale crea valore
quanto più tempo di lavoro passa durante l'operazione della filatura nella stessa quantità di cotone
tanto maggiore è il neovalore che viene aggiunto al cotone.
quanti più chili di cotone vengono filati nello stesso tempo di lavoro
tanto maggiore risulterà il valore vecchio conservato nel prodotto.



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Inversamente
supponiamo che la produttività del lavoro di filatura rimanga inalterata,
che dunque
il tessitore abbia bisogno come prima della identica quantità di tempo per trasformare in refe 1 qle. di cotone
ma cambi il valore di scambio del cotone: 1 qle. di cotone salga o scenda a sei volte il suo prezzo:
in entrambi i casi il filatore
-aggiunge alla stessa quantità di cotone lo stesso tempo di lavoro di prima, cioè lo stesso valore
- e produce, in eguale periodo di tempo, eguale quantità di refe:
tuttavia
il valore che trasferisce nel prodotto, cioè dal cotone nel refe, è diminuito o aumentato di sei volte,
altrettanto accade quando
i mezzi di lavoro rincarano o scendono di prezzo, ma rendono lo stesso servizio nel processo lavorativo.
-Se le condizioni tecniche del processo di filatura restano inalterate
-se non si ha variazione di valore dei suoi mezzi di produzione
il filatore, in tempi di lavoro eguali,
consuma come prima quantità eguali di materia prima e di macchine, di valori invariabili:
il valore che egli conserva nel prodotto sta in rapporto diretto al neovalore che aggiunge.

Date condizioni di produzione invariate,
l'operaio
- conserva tanto più valore         quanto più ne aggiunge;
- però non conserva più valore   perché ne aggiunga di più,
bensì perché l'aggiunge in condizioni invariate e indipendenti dal suo lavoro

si può dire che
l'operaio conserva valori vecchi nella stessa proporzione con cui aggiunge neovalore.

Che il cotone salga o cali, egli conserva nel prodotto d'un'ora la metà del valore di cotone,di quanto ne conserva nel prodotto di due ore.
Se varia la produttività del suo lavoro, che salga o che cali,
-filerà in un'ora più o meno cotone di prima
-e conserverà più o meno valore di cotone nel prodotto d'un'ora lavorativa:
ma ciò nonostante in due ore lavorative conserverà il doppio del valore che conserva in un'ora lavorativa.
Il valore, fatta astrazione dalla sua rappresentazione simbolica nei segni di valore,
esiste in un valore d'uso, in una cosa,
quindi se va perduto il valore d'uso va perduto anche il valore.

I mezzi di produzione non perdono il loro valore simultaneamente alla perdita del valore di uso,
perché attraverso il processo lavorativo perdono la forma originaria del loro valore d'uso
per raggiungere, nel prodotto, la forma d'un altro valore d'uso.
per il valore
-è importante esistere in qualche valore d'uso,
-ma è indifferente in quale valore d’uso esiste come mostra la metamorfosi delle merci.

Da ciò segue che:
nel processo lavorativo si ha trapasso di valore dal mezzo di produzione al prodotto
in quanto il mezzo di produzione
-perde col suo valore d'uso indipendente anche il suo valore di scambio,
-dà al prodotto il valore che perde come mezzo di produzione:
sotto questo riguardo
i fattori oggettivi del processo lavorativo si comportano in maniera differente
es. il carbone col quale si riscalda la macchina scompare senza lasciar traccia
il colore e materiali ausiliari                       scompaiono, ma si manifestano nelle qualità del prodotto:
la materia prima è la sostanza del prodotto, ma ha mutato la propria forma
dunque  materia prima e materiali ausiliari
perdono la forma indipendente con la quale sono entrati, come valori d'uso, nel processo lavorativo.



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Altrimenti  per i mezzi di lavoro:
un attrezzo, una macchina, servono nel processo lavorativo, in quanto conservano la loro forma originaria,
e domani rientrano nel processo lavorativo nella stessa forma che avevano ieri,
dall’ingresso nell'officina fino al deposito dei rifiuti ossia
per il periodo durante il quale un mezzo di lavoro presta servizio:
il suo valore d'uso è consumato dal lavoro
quindi il suo valore di scambio è trapassato completamente nel prodotto.
Posto che il valore d'uso di una macchina nel processo lavorativo duri sei giorni,
essa perde in media un sesto del suo valore di uso ogni giornata lavorativa
quindi cede un sesto del suo valore al prodotto:
così si calcola
-il logoramento di tutti i mezzi di lavoro,
-la loro perdita giornaliera di valore d'uso
e la loro cessione di valore al prodotto;
se non fosse anche esso prodotto di lavoro umano, non cederebbe nessun valore al prodotto:
sarebbe servito a formare valore d'uso, senza formare valore di scambio
dunque
questo è il caso dei mezzi di produzione dati in natura senza intervento umano: terra, vento, acqua;
un fattore del processo lavorativo, un mezzo di produzione,
entra completamente nel processo lavorativo,
solo parzialmente nel processo di valorizzazione.
La distinzione fra processo lavorativo e processo di valorizzazione
qui si riflette sui loro fattori oggettivi
poiché lo stesso mezzo di produzione conta nello stesso processo di produzione
per intero come        elemento del processo lavorativo
parzialmente come   elemento della formazione di valore;
viceversa
un mezzo di produzione può entrare completamente nel processo di valorizzazione,
benché passi solo parzialmente nel processo lavorativo.

I mezzi di produzione trasferiscono valore nella nuova forma del prodotto
in quanto durante il processo lavorativo perdono valore nella forma dei loro vecchi valori d'uso:
iI massimo di perdita di valore che possono tollerare nel processo lavorativo
è limitato dalla grandezza di valore iniziale con cui sono entrati nel processo lavorativo,
ossia dal tempo di lavoro richiesto per la loro propria produzione;
dunque
i mezzi di produzione non possono aggiungere al prodotto più valore di quanto ne posseggano indipendentemente dal processo lavorativo al quale servono:
un materiale da lavoro, macchina, mezzo di produzione:
se costa 36.000 € non aggiungerà più di 36.000 € al prodotto complessivo alla cui formazione esso serve,
il suo valore è determinato non mediante il processo lavorativo, nel quale trapassa come mezzo di produzione, ma dal processo lavorativo dal quale proviene come prodotto:
nel processo lavorativo serve come valore d'uso cioè cosa con proprietà utili
quindi
non darebbe valore al prodotto, se non avesse posseduto valore prima della sua immissione nel processo.

Mentre il lavoro produttivo cambia mezzi di produzione in elementi costitutivi di un nuovo prodotto
il loro valore subisce una metempsicosi: trasmigra dal corpo consumato nel corpo di nuova formazione;
questa metempsicosi avviene alle spalle del lavoro reale:
l'operaio
non può aggiungere nuovo lavoro dunque non può creare nuovo valore senza conservare valori vecchi,
poiché
-deve aggiungere          il lavoro in forma utile determinata,
-non può aggiungere    il lavoro in forma utile senza fare dei prodotti mezzi di produzione di un nuovo prodotto                            trasferendo il loro valore nel nuovo prodotto;



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dunque
conservare valore aggiungendo valore è una dote di natura della forza-lavoro in atto che
- all'operaio non costa niente
- al capitalista frutta la conservazione del valore esistente di capitale:
finché gli affari vanno bene, il capitalista è sprofondato nel far plusvalore non vede questo dono gratuito del lavoro: le interruzioni violente del processo lavorativo, le crisi, glielo fanno notare in maniera tangibile.

nei mezzi di produzione si logora il loro valore di uso:

il loro valore non viene consumato e quindi non può esser riprodotto: viene conservato,
non perché   nel processo lavorativo si compia un'operazione con esso,
ma perché    il valore d'uso nel quale esso inizialmente esiste, scompare ma in un altro valore d'uso.

quindi
il valore dei mezzi di produzione
torna a presentarsi nel valore del prodotto
ma non viene riprodotto
quel che viene prodotto è il nuovo valore d'uso nel quale si ripresenta il vecchio valore di scambio.

Altrimenti vanno le cose
per la forza-lavoro cioè per il fattore soggettivo del processo del lavoro,

mentre il lavoro        trasferisce e conserva, nel prodotto, il valore dei mezzi di produzione,
il moto del lavoro     crea valore aggiuntivo, neovalore.

Supponiamo che
il processo di produzione si interrompa al punto nel quale l'operaio ha prodotto l'equivalente per il valore della propria forza-lavoro
es. al punto nel quale l'operaio ha aggiunto con un lavoro di 6 ore, un valore di 36 €:
questo valore costituisce l'eccedenza del valore del prodotto sulle sue parti costitutive dovute al valore dei mezzi di produzione:
è l'unico valore originale nato entro questo processo,
l’ unica parte di valore del prodotto prodotta mediante il processo stesso
reintegra solo il denaro anticipato dal capitalista per la compera della forza-lavoro, speso poi dall'operaio in mezzi di sussistenza:
il neovalore di 36 € appare come riproduzione:ma esso è riprodotto realmente come il valore dei mezzi di produzione.

La reintegrazione di un valore mediante un altro qui è mediata da una nuova creazione di valore:

sappiamo già che
il processo lavorativo dura oltre il punto nel quale
sarebbe riprodotto e aggiunto all'oggetto del lavoro un semplice equivalente del valore della forza-lavoro
es. invece delle 6 ore sufficienti, il processo dura 12 ore,
dunque con la messa in atto della forza-lavoro
non viene riprodotto solo  il proprio valore
ma viene prodotto             un valore eccedente:
questo plusvalore
costituisce l'eccedenza del valore del prodotto
sul valore dei fattori del prodotto consumati cioè dei mezzi di produzione e della forza-lavoro.

(TEMA PREVALENTI ESPOSIZIONE

Con l'esposizione delle differenti parti avute dai differenti fattori del processo lavorativo
nella formazione del valore del prodotto
abbiamo caratterizzato le funzioni delle differenti componenti del capitale
nel suo processo di valorizzazione.)


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L'eccedenza del valore complessivo del prodotto sulla somma dei valori dei suoi elementi costitutivi
è l'eccedenza del capitale valorizzato sul valore del capitale anticipato:
i mezzi di produzione e la forza-lavoro sono le differenti forme d'esistenza assunte da valore iniziale del capitale
quando s'è svestito della sua forma di denaro e s'è trasformato nei fattori del processo lavorativo;
dunque
la parte del capitale che si converte in mezzi di produzione (in materia prima-materiali ausiliari-mezzi di lavoro)
non cambia la propria grandezza di valore nel processo di produzione:
la chiamo parte costante del capitale in breve: capitale costante;

la parte del capitale convertita in forza-lavoro cambia il proprio valore nel processo di produzione
riproduce il proprio equivalente e un'eccedenza: il plusvalore che può variare: può essere grande o piccolo:
questa parte del capitale si trasforma da grandezza costante in grandezza variabile:
la chiamo parte variabile del capitale o capitale variabile.

Le stesse parti costitutive del capitale
-dal punto di vista del processo lavorativo,
si distinguono come fattori oggettivi e fattori soggettivi: mezzi di produzione e forza-lavoro,
-dal punto di vista del processo di valorizzazione si distinguono come capitale costante e capitale variabile.

Il concetto del capitale costante non esclude una rivoluzione nei valori delle sue componenti:
in questi casi,
il cambiamento di valore sorge
-nel processo che produce cotone
-non nel processo nel quale il cotone funziona da mezzo di produzione quindi come capitale costante.
Il valore di una merce è determinato dalla
-quantità del lavoro in essa contenuto
-tale quantità è determinata socialmente;
se è cambiato il tempo di lavoro, richiesto socialmente, per la produzione di quella data quantità
si ha una reazione sulla vecchia merce - unico esemplare della propria specie -
il cui valore viene misurato sempre per mezzo del lavoro socialmente necessario: anche nelle condizioni sociali presenti
Come il valore del materiale grezzo, può cambiare il valore dei mezzi di lavoro
che in servizio nel processo produttivo, delle macchine ecc.
e con essi la porzione di valore che cedono al prodotto)
es. se, in seguito ad una nuova invenzione,
una macchina è riprodotta con meno dispendio di lavoro
la macchina vecchia si svalorizza quindi trasmette meno valore al prodotto:
anche qui
il cambiamento di valore ha origine al di fuori del processo di produzione
dove la macchina funziona come mezzo di produzione:
-come una variazione nel valore dei mezzi di produzione, non altera il loro carattere di capitale costante,
così neppure una variazione nella proporzione fra capitale costante e capitale variabile influisce sulla loro distinzione funzionale.

Le condizioni tecniche del processo lavorativo es. possono essere trasformate in modo che
-dove una volta dieci operai lavoravano con dieci attrezzi di scarso valore una materia prima piccola,
ora un operaio lavori un materiale cento volte maggiore, con una macchina più cara:
in questo caso
- il capitale costante, cioè la massa di valore dei mezzi di produzione adoperati, sarebbe molto cresciuta
- la parte variabile del capitale, cioè quella anticipata in forza-lavoro, sarebbe molto diminuita;
questa variazione
-cambia solo il rapporto di grandezza fra capitale costante e capitale variabile
ossia le proporzioni dello scindersi del capitale in componenti costanti e variabili,
-non intacca la distinzione fra costante e variabile.



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CAPITOLO 7
IL SAGGIO DEL PLUSVALORE
 IL GRADO DI SFRUTTAMENTO DELLA FORZA-LAVORO.


Il plusvalore generato nel processo di produzione dal capitale anticipato C,
cioè la valorizzazione del valore di capitale anticipato C
in un primo momento
si presenta come eccedenza del valore del prodotto sulla somma dei valori degli elementi della sua produzione.

Il capitale C si scinde in due parti:
una somma di denaro (c) spesa per mezzi di produzione,
e un’altra somma di denaro (v) spesa per forza-lavoro;
(c) rappresenta la parte di valore trasformata in capitale costante,
(v) quella trasformata in capitale variabile

all’inizio dunque
si ha
C = c + v,
per esempio il capitale anticipato di 6.000 € è eguale a 4.920 € (c) + 1.080 € (v) = 6.000 €.
alla fine del processo di produzione
risulta merce il cui valore è eguale a (c + v) + p dove (p) è il plusvalore, per esempio (4.920 € (c) + 1.080 € (v)) + 1.080 € (p) = 7.080 €.
iI capitale iniziale C si è trasformato in C’, da 6.000 € e ne sono venuti 7.080 €.
La differenza fra i due è eguale a (p), un plusvalore di 1.080 €.

Poiché il valore degli elementi della produzione è eguale al valore del capitale anticipato,
è una tautologia dire che l’eccedenza del valore del prodotto,
sul valore degli elementi della sua produzione,
è eguale alla valorizzazione del capitale anticipato ossia eguale al plusvalore prodotto:

questa tautologia esige una definizione più esatta:
col valore del prodotto viene comparato il valore degli elementi di produzione
consumati nella formazione del valore del prodotto,
invece abbiamo veduto che
la parte del capitale costante impiegato, consistente di mezzi di lavoro,
cede al prodotto una porzione di valore
l’altra porzione continua a esistere nella vecchia forma:
dobbiamo astrarre da questa seconda porzione, perché non rappresenta nessuna parte nella formazione del valore: introdurla nel calcolo non cambierebbe niente.
Quindi
per capitale costante anticipato per la produzione del valore. quando dal nesso non risulti il contrario,
intendiamo sempre e soltanto
il valore dei mezzi di produzione consumati nella produzione

con questo presupposto torniamo alla formula C = c + v, che si trasforma in C’ = (c + v) + p, e che perciò trasforma C in C’
sappiamo che
il valore del capitale costante si ripresenta nel prodotto:
dunque
il prodotto in valore creato ex novo nel processo è differente dal valore del prodotto conservato nel processo
quindi
non si ha, come appare a prima vista,
(c + v) + p ossia (4.920 € (c) + 1.080 € (v)) + 1.080 € (p),
ma (p) + (v) ossia 1.080 € (v)) + 1.080 € (p), non 7.080 €, ma 2.160 €.



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Se (c), il capitale costante, fosse eguale a zero,
se, in altre parole, ci fossero branche dell’industria nelle quali il capitalista
(non avesse da adoperare mezzi di produzione prodotti materia prima, materiali ausiliari, strumenti di lavoro)
avesse da adoperare solo materiali presenti in natura e forza-lavoro
allora non ci sarebbe da trasferire nel prodotto nessuna parte costante di valore:
l’elemento del valore del prodotto  cadrebbe
il prodotto di valore che contiene il plusvalore, rimarrebbe della stessa grandezza che se (c) rappresentasse la massima somma di valore: avremmo: C = (0 + v) = v, e C’, il capitale valorizzato, = v + p: essendo C’— C = p, come prima.

Se, viceversa, in altre parole
la forza-lavoro, il cui valore viene anticipato in capitale variabile, avesse prodotto solo un equivalente
iI capitale anticipato non si sarebbe valorizzato.
(si avrebbe C = c + v, e poi: C’ (il valore del prodotto) = (c + v) + O, quindi: C = C’)

sappiamo che
il plusvalore è semplicemente conseguenza
del cambiamento di valore che avviene in v, nella parte di capitale convertita in forza-lavoro
che quindi si ha v + p = v + Δv (v più incremento di v).

Ma il reale cambiamento di valore e il rapporto secondo il quale il valore cambia,
vengono oscurati per il fatto che cresce anche il capitale complessivo anticipato
in conseguenza della crescita della sua componente variabile
dunque l’analisi del processo esige che si astragga
da quella parte del valore del prodotto nella quale riappare valore costante del capitale,
cioè esige che si ponga il capitale costante C come eguale a zero

Un’altra difficoltà sorge dalla forma iniziale del capitale variabile.
nell’esempio si ha che C’ è eguale a 4.920 € di capitale costante più 1.080 € di capitale variabile, più 1.080 € di plusvalore
1.080 € sono una grandezza data, cioè costante, e quindi sembra spropositato trattarle come grandezza variabile.
Ma qui 1.080 € (v), cioè 1.080 € di capitale variabile, sono in realtà solo un simbolo del processo percorso da questo valore.

La parte di capitale anticipata nella compera della forza-lavoro
è una quantità determinata di lavoro oggettivato, quindi una grandezza di valore costante
come il valore della forza-lavoro comperata.

nel processo di produzione ai 1.080 € anticipati
subentra la forza-lavoro attuantesi cioè lavoro vivente
a una grandezza statica  subentra una grandezza in movimento
al posto d’una costante   subentra una variabile
il risultato è: la riproduzione di (v), più incremento di (v)

dal punto di vista della produzione capitalistica
questo ciclo è automatismo del valore convertito in forza-lavoro inizialmente costante,
se la formulazione «di capitale variabile ossia di valore che si valorizza» appare contraddittoria
di fatto essa riproduce una contraddizione immanente alla produzione capitalistica.
l’equazione: capitale costante = zero, riesce sconcertante: eppure, la si compie nella vita quotidiana
es. se qualcuno vuol calcolare il guadagno dell’Inghilterra nell’industria cotoniera
sottrae il prezzo del cotone pagato es. Stati Uniti cioè pone eguale a zero il valore di capitale che si ripresenta nel valore di prodotto.
Per valorizzare una parte del capitale mediante la sua conversione in forza-lavoro
un’altra parte del capitale dev’essere trasformata in mezzi di lavoro,
affinchè il capitale variabile funzioni va anticipato capitale costante in proporzioni corrispondenti,
a seconda del carattere tecnico del processo lavorativo.



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In quanto la creazione e il cambiamento di valore sono considerati allo stato puro,
i mezzi di produzione, figure materiali del capitale costante,
forniscono solo il materiale per fissare la forza fluida che forma il valore
quindi anche la natura e il valore di questo materiale è indifferente, cotone o ferro che sia.

anche il valore di questo materiale è indifferente
deve esser a disposizione in una massa sufficiente per potere assorbire la quantità di lavoro da spendersi durante il processo di produzione:
il suo valore può salire o diminuire
o può essere senza valore, come il mare o la terra:
il processo della creazione di valore e del cambiamento di valore non ne viene intaccato.

In primo luogo
poniamo che la parte di capitale costante sia eguale a zero
dunque
il capitale anticipato si ridurrà da (c + v) a (v)
e il valore del prodotto (c + v) + p si ridurrà al prodotto del valore (v + p).

dato che il prodotto del valore sia eguale a 2.160 €, nel che è rappresentato il lavoro che scorre nel processo di produzione, dobbiamo detrarre il valore del capitale variabile, che è eguale a 1.080 €, per ottenere il plusvalore, 1.080 €,
la cifra di 1.080 € , cioè (p), esprime qui la grandezza assoluta del plusvalore prodotto.
ma la sua grandezza proporzionale, cioè il rapporto di valorizzazione del capitale variabile
è determinato dal rapporto del plusvalore col capitale variabile
ossia è espresso dalla formula p : v - Dunque, nell’esempio fatto sopra sarebbe: 1.080 : 1.080 = 100 %.

chiamo
saggio del plusvalore
questa valorizzazione relativa del capitale variabile, cioè la grandezza relativa del plusvalore.

TEMPO DI LAVORO NECESSARIO/LAVORO NECESSARIO

Abbiamo visto che

l’operaio
durante una parte del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza-lavoro
cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari
poiché produce in una situazione che poggia propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare es. il refe
cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera,

la parte della sua giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo
è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari
dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione,

se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta in media 6 ore lavorative oggettivate:
l’operaio deve lavorare in media 6 ore al giorno per produrlo,
l’operaio, se non lavorasse per il capitalista ma per sè stesso
dovrebbe lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata
per produrre il valore della propria forza-lavoro
e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento cioè per la propria riproduzione.



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Ma poiché nella parte della giornata nella quale produce il valore giornaliero della forza-lavoro,
l’operaio produce solo un equivalente del valore della forza-lavoro, già pagato dal capitalista
e dunque col valore di nuova creazione reintegra il valore variabile di capitale anticipato,
quella produzione di valore si presenta come semplice riproduzione
chiamo
tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione
chiamo
lavoro necessario il lavoro speso durante di essa:
necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro
necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio
PLUSLAVORO/PLUSVALORE
                           
il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale l’operaio lavora oltre i limiti del lavoro necessario,
è dispendio di forza-lavoro ma
per l’operaio    non crea nessun valore
per capitalista  crea plusvalore
chiamo
tempo di lavoro soverchio*    questa parte della giornata lavorativa (*va sostituito)
pluslavoro                                 il lavoro speso in esso
il plusvalore                              è coagulo di tempo di lavoro soverchio, pluslavoro oggettivato,
il valore in generale                 è coagulo di tempo di lavoro, lavoro aggettivato.

poiché il valore del capitale variabile    è eguale al valore della forza-lavoro da esso acquistata,
poiché il valore di questa forza-lavoro  determina la parte necessaria della giornata lavorativa
e il plusvalore è determinato dalla parte eccedente della giornata lavorativa,

ne segue che
il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto che il pluslavoro sta al lavoro necessario
cioè il saggio del plusvalore è:
p =     pluslavoro
___ _______________ 
v      lavoro necessario
    
i due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente
l’uno   nella forma del lavoro oggettivato
l’altro nella forma del lavoro in movimento

quindi
il saggio del plusvalore è l’espressione del grado di sfruttamento
della forza-lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista.




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CAPITOLO 8
LA GIORNATA LAVORATIVA
 I limiti della giornata lavorativa.


“RIASSUNTO
Eravamo partiti dal presupposto che
la forza-lavoro viene comprata e venduta al suo valore che, come quello di ogni altra merce,
è determinato dal tempo di lavoro necessario per la sua produzione:”
dunque
se la produzione dei mezzi di sostentamento quotidiani medi dell’operaio esige 6 ore
questi deve lavorare in media 6 ore al giorno per produrre la propria forza- lavoro
ossia per riprodurre il valore che ha ottenuto vendendola;
allora
la parte necessaria della sua giornata lavorativa ammonta a 6 ore, e quindi, caeteris paribus
(essendo invariate tutte le altre condizioni’ o ‘date le medesime circostanze” loc. lat.; abl. assoluto con ellissi del verbo, da cetĕra (neutro pl.) ‘tutte le altre cose’ e r păris ‘pari, uguale’ è una grandezza data
ma con ciò  non è ancora data la grandezza della giornata lavorativa stessa
poichè inoltre la proporzione
tempo di pluslavoro
-----------------------------------
tempo di lavoro necessario

determina il saggio del plusvalore: quest’ultimo è dato da quel rapporto
in quelle tre diverse giornate lavorative ammonta rispettivamente a 16 e 2/3 per cento, 50% e 100%

Viceversa
il saggio del plusvalore, da solo, non ci darà la grandezza della giornata lavorativa
es. se esso fosse eguale al 100%, la giornata lavorativa potrebbe essere di 8, 10, 12 ore:
indicherebbe che
le due parti della giornata lavorativa lavoro necessario e pluslavoro, hanno la stessa grandezza,
ma non indicherebbe
quanto è grande ognuna di quelle parti.
dunque
la giornata lavorativa  non è una grandezza costante, ma una grandezza variabile:
una delle sue parti è determinata dal tempo di lavoro richiesto per la riproduzione dell’operaio
ma la sua grandezza complessiva cambia con la lunghezza o durata del pluslavoro:
dunque
la giornata lavorativa è determinabile
ma
presa in sè e per sè è indeterminata;

Benché la giornata lavorativa non sia una grandezza fissa, ma fluida,
tuttavia può variare entro certi limiti
però  il suo limite minimo è indeterminabile
certo se poniamo il pluslavoro come eguale a zero, otteniamo un limite minimo
cioè la parte del giorno che l’operaio deve lavorare per la propria conservazione.
Sul piano del modo di produzione capitalistico
il lavoro necessario può costituire solo una sola parte della giornata lavorativa
quindi
la giornata lavorativa non può esser ridotta a questo minimo.



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Invece
la giornata lavorativa ha un limite massimo determinato da due cose

in primo luogo è determinato dal limite fisico della forza-lavoro
in 24 ore, un uomo può spendere una quantità determinata di forza
in quanto deve soddisfare altre necessità
nutrirsi, pulirsi, vestirsi e la soddisfazione di bisogni intellettuali e sociali:
quindi la variazione della giornata lavorativa si muove dunque entro limiti fisici e sociali.
che permettono ampi margini di azione, così troviamo giornate lavorative di diversissima lunghezza.

Definizione della giornata lavorativa: essa è meno di un giorno naturale di vita.

al capitalista appartiene il valore d’uso della forza lavoro durante una giornata lavorativa:
ha acquisito il diritto di far lavorare l’operaio per sè durante una giornata.
come capitalista, è solo capitale personificato
ma è l’anima del capitale che ha l’istinto di valorizzarsi, di creare plusvalore
di assorbire con la sua parte costante, che sono i mezzi di produzione, la massa di pluslavoro più grande possibile.

Il tempo durante il quale l’operaio lavora
è il tempo durante il quale il capitalista consuma la forza-lavoro che ha comprato,

il capitalista invoca la legge dello scambio delle merci:
come ogni compratore, cerca di spremere dal valore d’uso della sua merce la maggiore utilità possibile

CONTRAPPOSIZIONE DELL’ OPERAIO CHE SOSRIENE LE SEGUENTI RAGIONI:

l’operaio si contrappone la merce che ti ho venduto si distingue dalle altre merci
perchè il suo uso crea valore, e valore maggiore di quanto costi:
dalla tua parte    appare come valorizzazione del capitale
dalla mia parte   è dispendio eccedente di forza-lavoro
ambedue: sul mercato, conosciamo solo la legge dello scambio di merci
il consumo della merce non appartiene al venditore che la aliena, ma al compratore che l’acquista:
a te appartiene l’uso della mia forza-lavoro quotidiana
ma, col suo prezzo di vendita quotidiano, io debbo riprodurla per poterla tornare a vendere
debbo lavorare domani nelle stesse condizioni di forza di oggi:
voglio amministrare il mio unico patrimonio, la forza-lavoro
ne voglio render disponibile quel tanto che è compatibile con la sua durata normale.
tu puoi mettere a tua disposizione, in un solo giorno, con il prolungamento della giornata lavorativa,
una quantità della mia forza-lavoro maggiore di quanta io ne possa ristabilire in tre giorni:
quel che tu guadagni così in lavoro
lo perdo in sostanza lavorativa: l’uso della mia forza lavorativa e il depredamento di essa sono cose del tutto differenti.

Se il periodo medio di vita di un’operaio ammonta a trent’anni
il valore della mia forza-lavoro, che tu mi paghi è 1: 10.950 del suo valore complessivo
se tu la consumi in 10 anni, mi paghi un terzo del suo valore e mi rubi due terzi del valore della mia merce:
mi paghi la forza-lavoro di un giorno, mentre consumi quella di tre giorni:
questo è contro il nostro contratto e contro la legge dello scambio delle merci,
esigo una giornata lavorativa di lunghezza normale perchè esigo il valore della mia merce, come ogni altro venditore.



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Il capitalista, nel rendere più lunga possibile la giornata lavorativa e di farne di una due,
sostiene il suo diritto di compratore. 
l’operaio, volendo limitare la giornata lavorativa ad una grandezza normale determinata,
sostiene il suo diritto di venditore
dunque ha luogo una antinomia:
diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci
fra diritti eguali decide la forza:
nella storia della produzione capitalistica, la regolazione della giornata lavorativa si presenta come
lotta per i limiti della giornata lavorativa
fra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti,
e l’operaio collettivo, cioè la classe operaia.

2. LA VORACITÀ DI PLUSLAVORO. FABBRICANTE E BOIARDO.

Il capitale non ha inventato il pluslavoro:
ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione
il lavoratore, libero o schiavo,
deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento
tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione,
sia proprietario bello e buono, nobile ateniese, teocrate etrusco, civis romanus, barone normanno, negriero
o capitalista;
è evidente che
quando in una formazione sociale economica è preponderante
non il valore di scambio, ma il valore d’uso del prodotto
allora il pluslavoro è limitato da una cerchia di bisogni
ma non sorge dal carattere della produzione nessun bisogno illimitato di pluslavoro,
quindi
nell’antichità, la forma ufficiale del sovraccarico di lavoro è il lavorare coatti fino a morirne;
appena popoli, la cui produzione si muove nelle forme del lavoro degli schiavi,
vengono attratti in un mercato dominato dal modo di produzione capitalistico
che fa evolvere a interesse preponderante la vendita dei loro prodotti all’estero,
allora sulla schiavitù, servitù della gleba s’innesta l’orrore civilizzato del sovraccarico di lavoro.
Negli Stati meridionali dell’Unione americana,
il lavoro dei negri conservò un carattere patriarcale finchè la produzione fu orientata sui bisogni locali immediati,
quando l’esportazione del cotone divenne interesse vitale di quegli Stati
il sovraccarico di lavoro del negro divenne fattore d’un sistema calcolatore
non si trattava più di trarre dal negro una certa massa di prodotti utili
ormai si trattava della produzione del plusvalore;
I Factory Acts inglesi frenano l’istinto del capitale a sfuttare la forza-lavoro. mediante la limitazione coatta della giornata lavorativa in nome dello Stato Il Factory Act del 1850, ora (1867) permette 10 ore per la giornata settimanale media,
detratte mezz’ora per la colazione e un’ora per il pasto di mezzogiorno, cosicchè rimangono 10 ore e mezza lavorative Rimangono 60 ore lavorative,

«Il profitto straordinario, ottenibile mediante sovraccarico di lavoro oltre il tempo legale
molti fabbricanti speculano sulla probabilità di non essere scoperti
e calcolano che, anche nel caso scoperti, l’esiguità delle pene pecuniarie e delle spese di giudizio garantisce loro sempre un bilancio attivo”
in questa atmosfera la formazione del plusvalore mediante il pluslavoro non è un segreto
l’operaio qui è tempo di lavoro personificato:
le differenze individuali si risolvono in quella di «operai a tempo intero» e «operai a tempo dimezzato».



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3. BRANCHE DELL’INDUSTRIA INGLESE SENZA LIMITE LEGALE ALLO SFRUTTAMENTO.

4. LAVORO DIURNO E NOTTURNO. IL SISTEMA DEI TURNI.

Il capitale costante, i mezzi di produzione, considerati dal punto di vista del processo di valorizzazione,
esistono solo allo scopo di assorbir lavoro e una quantità proporzionale di pluslavoro.
per il capitalista quando restano inoperosi rappresentano un’inutile anticipazione di capitale quindi una perdita
che diventa positiva appena l’interruzione nel loro impiego rende necessarie spese supplementari per il ricominciare il lavoro.
L’istinto della produzione capitalistica è di appropriarsi lavoro durante tutte le ventiquattro ore del giorno, poichè è impossibile assorbire continuamentele medesime forze-lavoro
c’è bisogno di avvicendare le forze-lavoro:
l’avvicendamento ammette vari metodi
es. sistema dei turni in modo che una parte del personale operaio provveda per una settimana al servizio diurno, per la seguente al servizio notturno
la durata del processo di produzione senza interruzioni permette di oltrepassare il limite della giornata lavorativa nominale.
questo sistema predominava nel periodo giovanile dell’industria cotoniera,
questo processo di produzione di ventiquattro ore continue esiste ancora rami dell’industria della Gran Bretagna: negli alti forni, nelle ferriere, nei laminatoi e in altre officine metallurgiche dell’Inghilterra, del Galles e della Scozia.
Il processo lavorativo abbraccia oltre le ventiquattro ore dei sei giorni di lavoro, anche le ventiquattro ore della domenica.
il capitale ne passa sotto silenzio le forme estreme i prolungamenti «crudeli e incredibili” della giornata lavorativa; ne parla soltanto nella sua forma «normale»:
FANCIULLI
l’età dei fanciulli e degli adolescenti percorre tutti i gradi intermedi, dagli otto anni (in alcuni casi dai sei) ai diciotto. In alcune branche anche le donne e le giovinette lavorano di notte assieme al personale maschile.
«Il signor Broughton, magistrato di contea, dichiarò che fra la parte della popolazione della città occupata nella fabbricazione di merletti dominava un livello di sofferenze e privazioni sconosciuto al resto del mondo civile.
Alle due, alle tre, alle quattro del mattino, fanciulli di nove o dieci anni vengono strappati ai loro sporchi letti e costretti a lavorare fino alle dieci, undici, dodici di notte, per un guadagno di pura sussistenza; le loro membra si consumano, la loro figura si rattrappisce, i tratti del volto si ottundono. Il sistema, come l’ha descritto il Rev. Montagu Valpy, è un sistema di schiavitù illimitata, schiavitù socialmente, fisicamente, moralmente, intellettualmente parlando.
L’industria ceramica dello Staffordshire è stata oggetto di tre inchieste parlamentari
deposizioni degli stessi fanciulli sfruttati: dai fanciulli ci si può fare un’idea degli adulti, in specie delle ragazze e donne,
William Wood, di nove anni; quindici ore di lavoro per un bambino di sette anni.
J. Murray, ragazzo dodicenne, depone: «porto stampi e giro la ruota. Vengo alle sei, spesso alle quattro del mattino. La notte scorsa ho lavorato tutta la notte fino a stamattina alle otto. Non sono andato a letto dall’altra notte in poi. Oltre a me anche altri otto o nove ragazzi hanno lavorato per tutta la notte scorsa. Ricevo tre scellini e sei pence alla settimana. Se lavoro per tutta la notte, non ricevo niente in più. Nell’ultima settimana ho lavorato per due notti intere”.
Fernyhough, ragazzo decenne: “Non sempre ho tutta un’ora per il pasto di mezzogiorno; spesso mezz’ora soltanto».
VASAI
Il dott. Greenhow dichiara che la durata media della vita nei distretti ceramieri è straordinariamente breve
Il dott. Boothroyd, depone: risulta da malattie polmonari fra i vasai “Ogni generazione successiva di vasai è più nana e più debole della precedente”
McBean un altro medico: «fra i vasai, la marcata degenerazione di questa classe si è progressivamente mostrata in una diminuzione di statura e di peso
Il dott. J. T. Arledge dice: «Come classe, i vasaicostituiscono una popolazione degenerata, fisicamente e moralmente:sono piccoli e mal cresciuti, spesso deformi di petto, invecchiano prematuramente e vivono poco tempo; forma d’asma è peculiare conosciuta come asma dei vasai o tisi dei vasai.
Il sig. Charles Pearson
fanciulli la cui salute veniva sacrificata in omaggio all’avidità dei loro genitori e dei loro datori di lavoro”.
enumera le cause delle malattie dei vasai, e conclude la serie con quella culminante: lunghe ore lavorative
La manifattura dei fiammiferi data dal 1833
si è sviluppata in Inghilterra dal 1845  poi, rapidamente si è estesa, con essa s’è diffuso il trisma
un medico di Vienna scoperse già nel 1845 esser la malattia peculiare dei lavoranti in fiammiferi
nelle manifatture; bambini sotto i tredici anni e adolescenti di meno di diciotto anni.
ha così cattiva fama, per la sua insalubrità e per la repugnanza che solo la parte più decaduta della classe operaia, vedove semiaffamate ecc., le cede i figli, “fanciulli stracciati, semiaffamati, del tutto trascurati e non educati.




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J. Lightbourne: «Ho tredici anni  l’inverno abbiamo lavorato fino alle nove di sera, e l’inverno precedente fino alle dieci, piangevo quasi tutte le sere dal dolore delle piaghe ai piedi».
G. Apsden: Spesso mi inginocchiavo per dargli da mangiare mentre stava alla macchina, perchè non doveva nè lasciarla, nè fermarla”.
Smith, il socio direttore di una fabbrica di Manchester:
« lavoriamo senza interruzioni per i pasti, il lavoro giornaliero di dieci ore e mezza è finito alle quattro e mezza pomeridiane
dopo è tutto tempo extra, lavoriamo di fatto per un tempo extra durante tutto l’anno fanciulli e adulti»
 bambini e adolescenti sotto i diciotto anni, centoquaranta adulti “hanno lavorato in media, durante gli ultimi diciotto mesi settantotto ore e mezza alla settimana i signori fabbricanti si dichiarano, contrari alla proposta di «fermar le macchine per lo meno durante i pasti».
Lavorare a morte è all’ordine del giorno, non solo nei laboratori delle crestaie, ma in mille luoghi, in ogni luogo dove prosperano gli affari.
tutti i quotidiani londinesi riportarono: morte da semplice sovraccarico di lavoro
si trattava della morte di Mary Anne Walkley, di venti anni
esempio  i fabbri muoiono alla media del trentun per mille all’anno, cioè undici al di sopra della media della mortalità dei maschi adulti  questa occupazione, diventa distruttrice dell’uomo, mediante il semplice eccesso di lavoro.
lo si costringe a batter tanti colpi di martello in più, a far tanti passi in più, a respirar tante volte in più al giorno
sicchè il suo dispendio di vita aumenta di un quarto al giorno e il risultato è che egli compie un quarto di lavoro in più per un periodo limitato e muore a trentasette anni invece che a cinquanta»
«La pratica di far lavorare i fanciulli a turni diurni e notturni, conduce a un vergognoso prolungamento della giornata tanto nei momenti di slancio degli affari quanto durante il normale corso delle cose. In molti casi, questo prolungamento non solo è crudele, ma addirittura incredibile.
Non si può evitare che uno dei fanciulli dei turno di ricambio rimanga qua e là assente, per una causa o per l’altra: e allora uno o più dei presenti, che hanno già compiuto la loro giornata lavorativa, debbono occupare il posto vacante.
«In un laminatoio, dove la giornata lavorativa normale durava dalle sei del mattino fino alle cinque e mezza di sera, un ragazzo lavorò quattro notti alla settimana, prolungando il lavoro fino per lo meno alle otto e mezza pomeridiane del giorno seguente... e questo per sei mesi». «Un altro, a nove anni, aveva lavorato a più riprese per tre turni di lavoro di dodici ore l’uno, di seguito, e a dieci anni, due giorni e due notti di seguito».
I signori Naylor e Vickers, padroni di acciaierie,  impiegano dalle seicento alle settecento persone, il dieci per cento delle quali al di sotto dei diciotto anni e di questi venti ragazzi come personale notturno, si esprimono come segue:
 «I ragazzi non soffrono affatto per il calore. La temperatura è probabilmente di 30°-32° gradi.
Nelle fucine e nei laminatoi le braccia lavorano giorno e notte a turni, l’altro lavoro è lavoro diurno, dalle sei di mattina alle sei di sera,
le ore lavorative vanno dalle dodici alle dodici, lavorano sempre di notte senza avvicendamento di lavoro diurno e lavoro notturno.
Non troviamo che il lavoro notturno e il lavoro diurno facciano differenza quanto alla salute, la gente dorme meglio se ha sempre le stesse ore di riposo, invece di alternarle Circa venti ragazzi al di sotto dei diciotto anni lavorano col turno di notte. Non potremmo farcela senza il loro lavoro notturno La nostra obiezione sarebbe: l’aumento dei costi di produzione.
Il signor J. Ellis, della ditta dei signori John Brown Co., ferriere e acciaierie,
impiegano tremila fra uomini e ragazzi “giorno e notte a turni» dichiara che nel lavoro pesante all’acciaio ci sono uno o due ragazzi ogni due uomini. conta cinquecento ragazzi al di sotto dei diciotto anni e, di questi, un terzo al di sotto dei tredici anni.
Riguardo alla modificazione della legge che veniva proposta, il signor Ellis opina:
 «Non credo che sarebbe cosa riprovevole non far lavorare nessuna persona al di sotto di diciotto anni oltre le dodici ore su ventiquattro.
 Ma non credo che, al di sopra dei dodici anni, si possa fissare una qualsiasi linea oltre la quale i ragazzi possano essere dispensati dal lavoro notturno. Noi preferiremmo che fosse proibito di impiegare ragazzi sotto i tredici anni o anche sotto i quattordici, piuttosto d’una proibizione di usare durante la notte i ragazzi che ormai abbiamo.
I ragazzi del turno di giorno debbono avvicendarsi al lavoro anche nei turni di notte, perchè gli uomini non possono lavorare continuamente di notte. Noi crediamo che il lavoro notturno non sia nocivo, se fatto a settimane alterne».
Le «Ferriere e acciaierie Ciclope”, dei signori Cammel
il signor White ricorda che per quei signori la proibizione del lavoro notturno di bambini e adolescenti era “impossibile; sarebbe lo stesso che chiudere le loro officine»
Sanderson, della ditta Sanderson, acciaio fucinato e laminato, dichiara:
“Dalla proibizione di far lavorare di notte adolescenti al disotto dei diciotto anni deriverebbero grandi difficoltà
la difficoltà maggiore deriverebbe dall’aumento dei costi, che accompagnerebbe una sostituzione del lavoro di fanciulli col lavoro di uomini. Non posso dire a quanto ammonterebbe, ma non sarebbe tanto da permettere al fabbricante di alzare il prezzo dell’acciaio e, di conseguenza, la perdita ricadrebbe su di lui.
 «la forza dei ragazzi è per l’appunto sufficiente e, di conseguenza, non deriverebbe dalla maggior forza degli uomini nessun guadagno per compensare la perdita, oppure soltanto nei pochi casi in cui il metallo è pesantissimo.
Nè gli uomini vedrebbero volentieri di non avere sotto di sè dei ragazzi, poiché gli uomini sono meno ubbidienti dei ragazzi.
«Perché, a questo modo, gli uomini che lavorano a turni settimanali avvicendando lavoro notturno e lavoro diurno verrebbero separati dai ragazzi del loro turno e perderebbero metà del profitto che traggono dai ragazzi stessi. Ogni uomo perderebbe metà del suo profitto».
In altre parole, i signori Sanderson dovrebbero pagare di tasca propria, invece che col lavoro notturno dei ragazzi, una parte del salario degli adulti. Questo getterebbe sugli adulti, che ora vengono rimpiazzati dai fanciulli, il peso d’un continuo lavoro notturno, ch’essi non sopporterebbero. le difficoltà sarebbero così grandi, da condurre alla soppressione completa del lavoro notturno.
La produzione dell’acciaio è un semplice pretesto per la produzione del plusvalore:
E. F. Sanderson  «questa perdita derivante dal macchinario inattivo colpisce tutte le manifatture nelle quali si lavora solo di giorno.
Ma, nel nostro caso, l’uso dei forni fusori causerebbe una perdita straordinaria. Se vengono tenuti accesi, si sciupa del combustibile» «se non vengono tenuti accesi, si ha una perdita di tempo nel riaccendere il fuoco e per raggiungere il necessario grado di calore poi i forni soffrirebbero del cambio di temperatura»



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5. LA LOTTA PER LA GIORNATA LAVORATIVA NORMALE. LEGGI COERCITIVE PER IL PROLUNGAMENTO DELLA GIORNATA LAVORATIVA DALLA META DEL SEC. XIV ALLA FINE DEL SEC. XVII.

«Che cos’è una giornata lavorativa?
Qual è la quantità del tempo durante il quale il capitale può consumare la forza-lavoro della quale esso paga il valore d’una giornata?
Fino a che punto la giornata lavorativa può essere prolungata al di là del tempo di lavoro necessario per la riproduzione della forza-lavoro stessa?
S’è visto che a queste domande il capitale risponde:
la giornata lavorativa conta ventiquattro ore al giorno,
detratte le ore di riposo senza le quali la forza-lavoro ricusa di rinnovare il suo servizio.

in primo luogo è evidente che l’operaio è forza-lavoro e perciò è tempo di lavoro
dunque appartiene alla autovalorizzazione del capitale,

il capitale, nella sua voracità di pluslavoro
scavalca i limiti della giornata lavorativa
usurpa il tempo lo sviluppo e la conservazione del corpo,
ruba il tempo per consumare aria libera e luce solare
lesina sul tempo dei pasti e lo incorpora nel processo produttivo
Tempo per un’educazione, per lo sviluppo intellettuale, per funzioni sociali, per rapporti socievoli,
per il libero giuoco delle energie vitali fisiche e mentali, il tempo festivo domenicale: fronzoli puri e semplici!
non è la normale conservazione della forza-lavoro a determinare il limite della giornata lavorativa,
viceversa,
è il massimo possibile dispendio giornaliero di forza-lavoro a determinare il limite del tempo di riposo  
il capitale non si preoccupa della durata della vita della forza- lavoro
gli interessa unicamente il massimo di forza-lavoro che può essere resa liquida in una giornata lavorativa:  ottiene questo scopo abbreviando la durata della forza-lavoro;
la produzione capitalistica che è produzione di plusvalore col prolungamento della giornata lavorativa,
non produce solo il deperimento della forza-lavoro umana
ma produce anche l’esaurimento e l’estinzione precoce della forza-lavoro
prolunga il tempo di produzione dell’operaio entro un termine dato, mediante l’accorciamento del tempo che questi ha da vivere.

Il valore della forza-lavoro include però anche
il valore delle merci necessarie per la riproduzione dell’operaio e per la perpetuazione della classe operaia.
dunque
se il prolungamento della giornata lavorativa abbrevia il periodo di vita degli operai e la durata della loro forza-lavoro,
diventa necessaria una più rapida sostituzione degli operai logorati, quindi è necessario sottoporsi a maggiori costi di logoramento nella riproduzione della forza-lavoro,
quindi sembra che il capitale sia indotto dal suo interesse a una giornata lavorativa normale.

Il capitale non ha riguardi per la salute e la durata della vita dell’operaio,
quando non sia costretto a tali riguardi dalla società
ciò non dipende dalla buona o cattiva volontà del capitalista singolo:
la libera concorrenza fa valere le leggi della produzione capitalistica
come legge coercitiva esterna nei confronti del capitalista singolo.
L’esperienza mostra al capitalista
una sovrappopolazione costante relativamente al bisogno momentaneo di valorizzazione del capitale
l’esperienza mostra, d’altra parte
con quanta profondità la produzione capitalistica abbia intaccato alla radice l’energia vitale del popolo,
come l’assorbimento di elementi vitali provenienti dalla campagna porti solo un rallentamento alla degenerazione della popolazione e come comincino a deperire perfino i lavoratori agricoli.



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Il proprietario di schiavi si compra il lavoratore come si compra il cavallo
se perde lo schiavo, perde un capitale che dev’essere sostituito con un nuovo esborso sul mercato degli schiavi,
considerazioni di carattere economico potrebbero offrire una garanzia di trattamento umano per gli schiavi, identificando l’interesse del padrone con la conservazione dello schiavo,
ma, dopo l’introduzione della tratta degli schiavi dal momento che il suo posto può esser colmato con l’importazione da riserve straniere
la durata della sua vita diventa meno importante della produttività di questa vita finchè dura.
dunque nei paesi importatori di schiavi,
l’economia più efficace consiste nello spremere il maggior rendimento possibile nel più breve tempo possibile dal bestiame umano.

La fissazione della giornata lavorativa normale è il risultato di una lotta multisecolare fra capitalista e operaio,
la storia di questa lotta mostra due correnti contrapposte:
si confronti
mentre la legislazione inglese contemporanea sulle fabbriche accorcia coercitivamente la giornata lavorativa,
gli statuti inglesi del lavoro dal sec. XIV fino verso la metà e oltre del sec. XVIII
cercano di allungarla coercitivamente.

abbiamo visto che la ceramica è uno dei rami dell’industria che concedono vita più breve
Wedgwood, l’inventore della ceramica moderna, in origine è un comune operaio, dichiarò davanti alla Camera dei Comuni ”L’industria cotoniera conta novant’anni di vita, nel periodo di tre generazioni della razza inglese essa ha divorato nove generazioni di operai cotonieri» .
A Manchester s’installarono agenti col permesso dei Poor Law Commissioners:
si prepararono liste di lavoratori agricoli che venivano consegnate a questi agenti,
i fabbricanti dopo che essi avevano scelto quel che loro conveniva,
venivano spedite le famiglie come pacchi umani venivano spediti con le loro etichette,
alcuni si avviavano a piedi per i distretti manifatturieri.
La cosa si sviluppò in una vera branca di commercio, questo traffico di carne umana, continuò: quegli uomini venivano comprati e venduti dagli agenti di Manchester ai fabbricanti di Manchester con la regolarità delle vendite di negri ai piantatori di cotone degli Stati del sud.
Il Bury Guardian lamentava che potevano venire assorbite diecimila braccia addizionali e che presto
sarebbero state necessarie fra le trentamila e le quarantamila in più.
Dopo che gli agenti e i sub agenti di quel commercio di carne umana ebbero frugato minutamente senza risultato, i distretti agricoli, «una deputazione di fabbricanti si rivolse al signor Villiers, presidente del Comitato per i poveri con la richiesta di permettere di nuovo di far venire i figli dei poveri e gli orfani dalle workhouses».
Le pretese del capitale allo stato embrionale, quando assicura il suo diritto di assorbire una quantità sufficiente di pluslavoro non ancora mediante la semplice forza dei rapporti economici, ma anche con l’ausilio del potere dello Stato, sono assai modeste,
se si confrontano con le concessioni che è costretto a fare in età adulta.
Ci vogliono secoli perchè il «libero» lavoratore si adatti volontariamente, in conseguenza dello sviluppo del modo capitalistico di produzione, cioè sia socialmente costretto a vendere per il prezzo dei suoi mezzi di sussistenza abituali l’intero suo periodo attivo di vita.
Quel che oggi nello Stato del Massachussetts, lo Stato più libero della repubblica americana del nord, viene proclamato come limite statutario al lavoro dei fanciulli al di sotto dei dodici anni, era in Inghilterra, ancora alla metà del sec. XVII, la giornata lavorativa normale di artigiani nel pieno delle forze.
Il primo Statute of labourers (regno di Edoardo III 1349) ebbe il suo pretesto immediato nella peste che aveva decimato la popolazione, cosicchè, come dice uno scrittore tory, la difficoltà di far lavorare operai a prezzi ragionevoli” (cioè a prezzi che lasciassero a chi impiegava gli operai una quantità ragionevole di pluslavoro) «era divenuta di fatto intollerabile».
Quindi vennero imposti per forza di legge salari ragionevoli e così pure i limiti della giornata lavorativa.
Quest’ultimo punto è ripetuto nello statuto del 1496 (sotto Enrico VII):
la giornata lavorativa doveva allora durare, però non si ottenne mai nel periodo da marzo a settembre, dalle cinque di mattina fin tra le sette e te otto di sera, ma le ore dei pasti ammontavano a un’ora per la prima colazione, un’ora e mezza per il pasto del mezzogiorno e mezz’ora per il pasto delle quattro: cioè proprio il doppio di quanto è concesso dalla legge sulle fabbriche ora vigente.
Uno statuto elisabettiano del 1562, per tutti i lavoratori “ingaggiati con salario a giornata o a settimana lascia intatta la durata della giornata lavorativa, ma cerca di limitare gli intervalli a due ore e mezza per l’estate e a due per l’inverno.
Il pasto di mezzogiorno deve durare un’ora, mentre «il sonno pomeridiano di una mezz’ora» dev’essere permesso solo da metà maggio a metà agosto. Per ogni ora di assenza dev’essere detratto un penny (circa 8 pfennig) dal salario.
Nella pratica, la situazione dei lavoratori era più favorevole che nel libro degli statuti.
Il padre dell’economia politica, William Petty, dice:
«I lavoratori» agricoli “lavorano dieci ore al giorno e fanno venti pasti alla settimana, donde si vede che, se volessero digiunare il venerdì sera e se volessero dedicare al pasto di mezzogiorno un’ora e mezza, mentre ora abbisognano di due ore, dalle undici all’una di mattina, se dunque essi lavorassero per un ventesimo di più e consumassero un ventesimo di meno ci si potrebbe procacciare il decimo dell’imposta sopra ricordata».
la situazione del lavoro dei fanciulli ancora alla fine del secolo XVII:
«I nostri ragazzi, in Inghilterra, non fanno niente fino al momento di divenire apprendisti; poi hanno bisognodi molto tempo per divenire artigiani perfetti”.
Invece si celebra la Germania, perchè quivi i fanciulli vengono allevati fin dalla culla almeno “a un qualche po’ di occupazione».
Ancora per la maggior parte del sec. XVIII, fino all’epoca della grande industria, al capitale non è riuscito in Inghilterra d’impadronirsi dell’intera settimana dell’operaio mediante il pagamento del valore settimanale della forza-lavoro, eccezion fatta tuttavia per i lavoratori agricoli. La circostanza che potevano vivere una settimana intera col salario di quattro giornate non sembrava agli operai ragione sufficiente per lavorare per il capitalista anche le altre due giornate.



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6. LA LOTTA PER LA GIORNATA LAVORATIVA NORMALE. LEGGI COERCITIVE SULLA LIMITAZIONE DEL TEMPO DI LAVORO. LA LEGISLAZIONE INGLESE SULLE FABBRICHE DAL 1833 AL 1864.

Il capitale ha avuto bisogno di secoli per prolungare la giornata lavorativa fino ai suoi limiti massimi normali
e poi fino ai limiti della giornata naturale di dodici ore:
ma dopo la nascita della grande industria si ebbe una accelerazione smisurata, travolgente:
tutti i limiti, di morale e di natura, di sesso e di età, di giorno e di notte, furono spezzati.

Tuttavia, per tre decenni, le concessioni strappate dalla classe operaia rimasero puramente nominali:
dal 1802 al 1833 il parlamento emanò 5 Acts sul lavoro, ma fu tanto scaltro da non votare neanche un soldo per la loro esecuzione legale, per il personale necessario di funzionari: così quegli Acts rimasero lettera morta.

L’esistenza di una giornata lavorativa normale data per l’industria moderna soltanto dall’Atto sulle fabbriche del 1833,
La legge del 1833 dichiara che la giornata lavorativa di fabbrica deve cominciare alle cinque e mezzo di mattina e finire alle otto e mezza di sera, che entro tali limiti dev’essere considerato legale far lavorare adolescenti in qualsiasi momento della giornata.
La sesta sezione dell’Atto stabilisce: «che sarà concessa, nel corso di ogni giornata, non meno di un’ora e mezza per i pasti ad ognuna di tali persone dal tempo di lavoro limitato».
Fu proibito di far lavorare fanciulli al di sotto dei nove anni, con un’eccezione che ricorderemo più avanti; il lavoro dei fanciulli dai nove ai tredici anni venne limitato a otto ore al giorno.
Per tutte le persone fra i nove e i diciotto anni fu proibito il lavoro notturno, cioè, secondo quella legge, il lavoro fra le otto e mezza di sera e le cinque e mezza di mattina.

I legislatori erano tanto lontani dal voler intaccare la libertà del capitale di succhiar la forza-lavoro degli adulti, cioè dall’intaccare quella che essi chiamavano «la libertà del lavoro», che escogitarono un loro sistema per prevenire tali conseguenze della legge sulle fabbriche.

«Il gran male del sistema delle fabbriche, com’è regolato”, dice la prima relazione del consiglio centrale della commissione del 25 giugno 1833, “consiste nel fatto che esso crea la necessità di estendere il lavoro dei fanciulli alla durata estrema della giornata lavorativa degli adulti.
L’unico rimedio a questo in conveniente sembra essere il progetto di adoperare doppie serie di ragazzi”;
quindi questo piano venne eseguito, in modo che, per es.
dalle cinque e mezza di mattina fino all’una e mezza pomeridiane veniva messo al lavoro un gruppo di fanciulli
dall’una e mezza alle otto e mezza un altro gruppo
e gli si dette il nome di sistema a relais (Relay significa, il cambio dei cavalli di posta in varie stazioni).

Il dott. Farre si era espresso «È necessaria subito una legislazione per la prevenzione della morte in tutte le forme nelle quali essa possa essere inflitta prematuramente; e certamente questo metodo» (delle fabbriche) «deve essere considerato uno dei più crudeli metodi di infliggere la morte».
Ma il capitale aprì da quel momento una agitazione rumorosa, durata vari anni.
Essa si svolgeva attorno all’età delle categorie che, sotto il nome di fanciulli, avevano visto il loro lavoro limitato ad otto ore ed erano state sottoposte a un certo obbligo scolastico.
Secondo l’antropologia capitalistica, la fanciullezza cessava coi dieci, o al massimo con gli undici anni.
Di fatto gli riuscì di intimidire il governo, fino a fargli proporre nel 1835 che il limite d’età dei fanciulli fosse abbassato dai tredici ai dodici anni.
L’Atto del 1833 entrò in pieno vigore. Rimase immutato fino al giugno del 1844.
Durante il decennio nel quale tale Atto ha regolato il lavoro di fabbricale relazioni ufficiali degli ispettori di fabbrica straboccano di lamentele sull’ mpossibilità di mandano ad effetto.
Infatti, poichè la legge del 1833 lasciava liberi i signori del capitale di far cominciare, interrompere in ogni momento che preferissero, ad ogni “adolescente” il suo lavoro di dodici ore
quei signori escogitarono subito un nuovo sistema a relais, col quale i cavalli da lavoro non venivano cambiati in determinate stazioni, ma tornavano sempre ad essere riattaccati in stazioni che cambiavano.
Esso aboliva l’Atto sulle fabbriche non solo nello spirito, ma anche nella lettera.
Come potevano fare gli ispettori di fabbrica a imporre il tempo di lavoro determinato dalla legge e la concessione dei periodi legali per i pasti, con tutta quella complicata contabilità su ogni singolo fanciullo e ogni adolescente?
In gran parte delle fabbriche il vecchio, brutale abuso tornò presto a fiorire impunito.
In una riunione col ministro degli interni (1844), gli ispettori di fabbrica dimostrarono l’impossibilità di ogni controllo mentre durava il sistema a relais di nuova invenzione.



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Ma intanto le circostanze s’erano molto cambiate.
Gli operai delle fabbriche, a cominciare specialmente dal 1838, avevano fatto del Bill delle dieci ore il loro grido economico di battaglia, come della Carta il loro manifesto politico.

Anche una parte dei fabbricanti, che avevano regolato l’esercizio della loro industria secondo l’Atto del 1833, seppelliva il parlamento con memoriali sulla “concorrenza” immorale dei loro «falsi fratelli”, ai quali più felici circostanze permettevano di infrangere la legge;
i portavoce e capi politici della classe dei fabbricanti ordinavano di tenere un contegno differente verso gli operai: per vincere la campagna per l’abolizione della legge sul grano avevano bisogno dell’aiuto degli operai
quindi promettevano il raddoppiamento della pagnotta e l’accettazione del Bill delle dieci ore:
così si giunse all’Atto aggiuntivo sulle fabbriche del 7 giugno 1844, in vigore il 10 settembre 1844
esso raggruppa una nuova categoria fra la massa degli operai che godono della sua protezione: le donne al di sopra dei diciotto anni che vennero equiparate alle «giovani persone”: il loro tempo di lavoro fu limitato a dodici ore, il lavoro notturno fu interdetto per esse,
dunque, per la prima volta, la legislazione si vide costretta a controllare ufficialmente anche il lavoro dei maggiorenni.

Per eliminare gli abusi del “sistema a relais” spurio, la legge prese le seguenti importanti disposizioni:
 “La giornata lavorativa per i fanciulli e gli adolescenti va calcolata dal momento della mattina nel quale qualsiasi fanciullo o adolescente comincia a lavorare nella fabbrica»:
cosicché, per es.
-se A comincia il lavoro alle otto del mattino e B alle dieci
tuttavia la giornata lavorativa di B deve finire alla stessa ora di quella di A,
-l’inizio della giornata lavorativa deve essere annunciato per mezzo di un orologio pubblico,
-il fabbricante deve affiggere nella fabbrica un avviso nel quale siano indicati
principio, fine, pause della giornata lavorativa,
-il turno pomeridiano deve consistere di fanciulli differenti da quelli del turno mattutino,
-l’ora e mezza per i pasti deve esser data per lo meno un’ora. a tutti gli operai protetti dalla legge negli stessi periodi della giornata  
-fanciulli e adolescenti non debbono esser impiegati per più di cinque ore prima dell’una pomeridiana, senza che ci sia una pausa di almeno mezz’ora per un pasto.

S’è visto che queste disposizioni minuziose non erano arzigogoli parlamentari
si erano sviluppate dalla situazione come leggi naturali del modo moderno di produzione:
loro formulazione, riconoscimento ufficiale e proclamazione da parte dello Stato
erano il risultato di lunghe lotte di classe;
una delle loro prime conseguenze fu che la pratica sottopose agli stessi limiti anche la giornata lavorativa degli operai di fabbrica maschi adulti,
poichè nei processi lavorativi la cooperazione dei fanciulli, degli adolescenti e delle donne era indispensabile agli operai adulti;

dunque, dal 1844 al 1847, la giornata lavorativa di dodici ore ebbe validità generale e uniforme in tutte le branche industriali soggette alla legislazione sulle fabbriche:
però i fabbricanti non permisero questo «progresso» senza un «regresso» che lo compensasse.
spinta da loro, la Camera dei Comuni ridusse da nove a otto anni l’età minima dei fanciulli
per garantire «la provvista addizionale di ragazzi di fabbrica» dovuta al capitale.

Gli anni 1846-47 fanno epoca nella storia economica dell’Inghilterra:
revoca delle leggi sul grano,
abolizione dei dazi di importazione sul cotone e su altre materie prime,
il libero commercio proclamato stella polare della legislazione!
Dall’altra parte, negli stessi anni giungevano alla massima altezza il movimento cartista e l’agitazione per le dieci ore, che trovavano alleati nei tories anelanti vendetta.



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Nonostante la resistenza dell’esercito liberoscambista il Bill delle dieci ore, fu approvato dal parlamento:
il nuovo Atto sulle fabbriche, dell’8 giugno 1847, stabilì
si doveva avere un abbreviamento provvisorio a undici ore della giornata lavorativa
degli “adolescenti” e delle operaie
ma che dal primo maggio 1848 doveva entrare in vigore la limitazione definitiva della giornata lavorativa a dieci ore.

Il capitale intraprese una campagna preliminare per impedire la piena esecuzione dell’Atto il primo maggio 1848.
Il momento era stato scelto con abilità.
«Si deve rammentare che, in seguito alla terribile crisi del 1846-47, grandi sofferenze avevano imperato fra gli operai delle fabbriche, poichè molte fabbriche avevano lavorato per poco tempo e altre erano rimaste ferme.
Un numero considerevole di operai si trovava quindi in una situazione gravissima, molti erano pieni di debiti. Quindi si poteva ritenere che avrebbero preferito il periodo lavorativo più lungo per compensare le perdite,
per pagare i debiti, per ritirare dalla casa di pegno i loro mobili, per sostituire le cose che avessero vendute» .
I signori delle fabbriche
cercarono di aumentare l’effetto di quelle circostanze con una riduzione generale dei salari del dieci per cento,
seguì
una riduzione dell’otto e un terzo per cento quando la giornata lavorativa fu abbreviata a undici ore
e del doppio, quando venne definitivamente limitata a dieci ore:
quindi ebbe luogo una riduzione dei salari del venticinque per cento.
Si dette inizio all’agitazione fra gli operai per la revoca dell’Atto del 1847 ma invano,
riguardo alle petizioni nelle quali gli operai furono costretti a lamentarsi della «loro oppressione sotto quell’Atto», gli stessi petitori dichiararono che le loro sottoscrizioni erano state estorte,
denunciavano gli ispettori di fabbrica che sacrificavano l’operaio al loro capriccio di riformatori del mondo: anche questa manovra fallì.
L’ispettore di fabbrica Leonard Horner numerosi interrogatori nelle fabbriche del Lancashire: 
il settanta per cento degli operai interrogati si dichiararono per le dieci ore.
la maggior parte deposero «che avrebbero preferito lavorar dieci ore a minor salario, ma che non avevano scelta: se avessero rifiutato il prolungamento del tempo di lavoro, altri avrebbero preso subito il loro posto, cosicchè per loro la questione era: o lavorare per il periodo prolungato o finir sul lastrico».
La campagna del capitale era fallita e la legge sulle dieci ore entrò in vigore il primo maggio 1848.

Ma il fiasco del partito dei cartisti, di cui i capi erano stati gettati in carcere e l’organizzazione frantumata, aveva scosso la fiducia in sè stessa della classe operaia inglese,
l’insurrezione parigina del giugno, soffocata nel sangue, riunì tutte le frazioni delle classi dominanti, governo e opposizione nella invocazione per la salvezza della proprietà, della religione, della famiglia, della società:
la classe operaia venne screditata dappertutto e messa al bando,
i signori delle fabbriche proruppero in aperta ribellione
contro la legge delle dieci ore e tutta la legislazione che dal 1833 aveva cercato di frenare il “libero» dissanguamento della forza-lavoro,
per comprendere quanto segue,
ci si deve rammentare che gli Atti sulle fabbriche del 1833, del 1844 e del 1847 erano tutti in vigore
che nessuno di quegli Atti aveva limitato la giornata lavorativa dell’operaio maschio al di sopra dei diciotto anni, e che il periodo di quindici ore era rimasto la «giornata» legale di lavoro di adolescenti e donne
prima di dodici ore, poi di dieci;
i fabbricanti cominciarono con il licenziamento talvolta della metà, di giovani ed operaie da loro
reintroducendo invece fra gli operai maschi adulti, il lavoro notturno ormai caduto quasi in disuso;
il secondo passo fu diretto contro le pause legali per i pasti.
Sentiamo gli ispettori di fabbrica:
«Dopo la riduzione delle ore lavorative a dieci, i signori delle fabbriche affermano che le disposizioni minuziose e precise sulle pause per i pasti danno agli operai soltanto il permesso di mangiare e bere prima dell’ingresso nella fabbrica e dopo l’uscita dalla fabbrica: cioè a casa propria!
Tuttavia i giuristi della Corona decisero che i pasti prescritti «debbono esser dati in pause durante la giornata lavorativa reale, che è illegale far lavorare dalle nove di mattina fino alle sette di sera senza interruzione per dieci ore di fila».



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il capitale iniziò la sua rivolta con un passo che corrispondeva alla lettera della legge del 1844, quindi era legale:
la legge proibiva di far lavorare di nuovo, dopo l’una pomeridiana, fanciulli dagli otto ai tredici anni impiegati prima delle dodici antimeridiane.
Ma non regolava il lavoro di sei ore e mezza dei fanciulli il cui periodo lavorativo cominciasse alle dodici antimeridiane o più tardi: quindi, fanciulli di otto anni potevano essere impiegati, se avevano cominciato il lavoro alle dodici antimeridiane, dalle dodici all’una: un’ora, dalle due alle quattro pomeridiane: due ore, dalle cinque fino alle otto e mezzo di sera: tre ore e mezza; tutto sommato le sei ore e mezza legali!
Per adattare l’uso che si faceva dei fanciulli al lavoro degli operai maschi adulti fino alle otto e mezza di sera,
i fabbricanti non avevano bisogno di altro che di non dar loro nessun lavoro prima delle due pomeridiane, e poi li potevano trattenere ininterrottamente nella fabbrica fino alle otto e mezza di sera.
Secondo la statistica presentata alla Camera dei Comuni il 26 luglio 1850, erano soggetti a questa «prassi»
3742 fanciulli, in 275 fabbriche.
L’occhio linceo del capitale ha scoperto che l’Atto non permette un lavoro antimeridiano di cinque ore senza una pausa di almeno trenta minuti di ristoro, ma non prescrive niente del genere per il lavoro pomeridiano.
Quindi ha preteso ed è riuscito non solo di far sgobbare figli di operai di otto anni dalle due alle otto e mezza di sera, ma anche di far patir loro la fame!
L’aggrapparsi alla lettera della legge del 1844, là dove essa regola il lavoro dei fanciulli,
doveva servire di passaggio intermedio alla rivolta contro la stessa legge che regola il lavoro di «adolescenti e donne»:
Si ricorderà che scopo e contenuto principali di quella legge era l’eliminazione del «sistema a relais spurio»
i fabbricanti aprirono la loro rivolta con la dichiarazione che
i paragrafi dell’Atto che proibivano lo sfruttamento a piacere di adolescenti e donne in brevi periodi della giornata di fabbrica scelti a piacere del padrone,
erano rimasti “innocui finchè il tempo di lavoro era limitato a dodici ore
ma sotto la legge delle dieci ore essi erano per loro un danno intollerabile»;
quindi i fabbricanti annunziarono agli ispettori che non avrebbero tenuto conto della lettera della legge e che avrebbero reintrodotto di propria iniziativa il vecchio sistema
questo, secondo loro, avveniva nell’interesse degli stessi operai
«per poter pagar loro salari più alti»
per mantenere, sotto la legge delle dieci ore, la supremazia industriale della Gran Bretagna».

Gli ispettori di fabbrica procedettero in via giudiziaria.
ma il ministro degli interni fu sommerso da tante petizioni di fabbricanti, che dette agli ispettori le seguenti istruzioni:
«di non procedere per infrazioni della lettera dell’Atto, tutte le volte che non è dimostrato che si fa abuso del sistema a relais per far lavorare oltre le dieci ore adolescenti e donne».
l’ispettore di fabbrica J. Stuart permise il cosiddetto sistema delle mute entro il periodo di quindici ore della giornata di fabbrica, il sistema in Scozia tornò presto a fiorire all’antica maniera.
invece gli ispettori di fabbrica inglesi dichiararono che il ministro non aveva potere per la sospensione delle leggi e continuarono ad agire con la stessa procedura contro i ribelli schiavisti
Es. Eskrigge, cotoniere della ditta Kershaw, Leese
aveva proposto all’ispettore di fabbrica del suo distretto lo schema di un sistema a relais destinato alla propria fabbrica. Ricevuta risposta negativa, pochi mesi dopo, un individuo di nome Robinson, anch’egli cotoniere, e se non proprio il Venerdì ad ogni modo parente del l’Eskrigge, era citato davanti ai Barough Justices per avere introdotto il medesimo progetto di relais che l’Eskrigge aveva escogitato. Al banco dei magistrati sedevano quattro giudici, fra i quali tre cotonieri con a capo lo stesso inevitabile Eskrigge.
L’Eskrigge assolse il Robinson, poi dichiarò che quel che era diritto per il Robinson era giusto per l’Eskrigge. Poi, facendosi forte della propria decisione, che era giuridicamente valida, introdusse subito il sistema nella propria fabbrica.

I giuristi della Corona dichiararono assurda l’interpretazione dell’Atto del 1844 data dai fabbricanti
Leonard Horner riferisce: “Dopo aver tentato, di far eseguire la legge e dopo essere stato appoggiato ritengo inutile continuare a perseguire in giudizio per elusione della legge.
Quella parte dell’Atto che fu concepita allo scopo di creare uniformità nelle ore di lavoro non esiste più.
Inoltre, nè io nè i miei subordinati abbiamo alcun mezzo per accertarci che le fabbriche dove impera il cosiddetto sistema a relais non facciano lavorare giovani e donne oltre le dieci ore.
Come controllare un sistema dove il personale operaio veniva distribuito in categorie, da dodici a quindici, le quali, a loro volta, variavano continuamente la loro composizione?



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Durante il periodo della giornata di fabbrica, il capitale attraeva l’operaio una volta per trenta minuti, un’altra per un’ora, per respingerlo poi per attrarlo di nuovo nella fabbrica e respingerlo dalla fabbrica
finché il lavoro di dieci ore fosse compiuto: come sul palcoscenico, le stesse persone dovevano presentarsi alternativamente nelle differenti scene dei differenti atti.

Ma, come un attore appartiene al palcoscenico per la durata del dramma,
così ora gli operai appartenevano alla fabbrica.
La rivolta del capitale ebbe il suo coronamento con la sentenza di una Corte d’Inghilterra che stabilì
che l’Atto del 1844 conteneva parole che gli toglievano ogni senso e che
«la legge delle dieci ore era abolita»
i fabbricanti che, fino a quel momento, avevano esitato ad applicare il sistema a relais agli adolescenti e alle operaie, vi si gettarono in pieno;
ma con questa vittoria apparentemente decisiva del capitale, ebbe subito inizio un rovesciamento:
finora gli operai avevano esercitato una resistenza passiva, benché inflessibile
ora protestarono a gran voce in meetings minacciosi
dunque la legge delle dieci ore era imbroglio, un trucco parlamentare, e non era mai esistita
l’antagonismo fra le classi era arrivato a una tensione di grado incredibile.
anche una parte dei fabbricanti brontolava: «Per le sentenze contraddittorie dei magistrati siamo in una situazione anormale e anarchica. Nello Yorkshire vige una legge, un’altra nel Lancashire.

Si venne a un compromesso fra operai e fabbricanti suggellato nell’Atto sulle fabbriche del 5 agosto 1850:
così s’era messo fine al sistema a relais per il lavoro dei fanciulli
per «adolescenti e donne», la giornata lavorativa fu elevata a dieci ore e mezza nei primi cinque giorni della settimana
e limitata a sette ore e mezza il sabato.
Il lavoro doveva svolgersi nel periodo dalle sei del mattino alle sei della sera, con pause di un’ora e mezza per i pasti, da concedersi contemporaneamente e in conformità alle disposizioni del 1844.

Anche questa volta, come già prima, una categoria di fabbricanti si assicurò particolari diritti signorili sui figli dei proletari. Erano i setaiuoli.
Nel 1833 avevano singhiozzato che «se si rubava loro la libertà di far crepare dal lavoro fanciulli di ogni età per dieci ore al giorno, era come fermare le loro fabbriche»
Secondo loro era impossibile comprare un numero sufficiente di fanciulli al di sopra dei tredici anni.
Ed estorsero il privilegio desiderato.
Certo, l’Atto del 1844 li «derubò» della «libertà» di logorar dal lavoro per più di sei ore e mezza al giorno bambini al di sotto degli undici anni, in cambio, assicurò loro il privilegio di logorar fanciulli fra gli undici e i tredici anni e cancellò l’obbligo scolastico prescritto.
Questa volta il pretesto fu: «la delicatezza del tessuto esige nelle dita una leggerezza di tocco che si può assicurare soltanto con un precoce ingresso nella fabbrica». Si macellavano fanciulli per averne solo le dita delicate.
Nel 1850, il privilegio concesso venne limitato ai reparti della torcitura e dell’annaspatura della seta
ma qui il tempo di lavoro dei fanciulli venne elevato da dieci a dieci ore e mezza, come indennizzo al capitale derubato della sua «libertà».
Pretesto: «nelle seterie il lavoro è più leggero che nelle altre fabbriche e non è affatto dannoso per la salute come nelle altre fabbriche».
Un’indagine medica dimostrò che «la mortalità nei distretti dell’industria serica è eccezionalmente alto».

La legge del 1850 cambiò il periodo di quindici ore dalle cinque e mezza di mattina alle otto e mezza di sera in quello di dodici ore dalle sei di mattina alle sei di sera, ma solo per «adolescenti e donne»:
dunque non per i fanciulli, che rimanevano sfruttabili per una mezz’ora prima dell’inizio e per due ore e mezza dopo la conclusione di quel periodo sebbene la durata complessiva del loro lavoro non dovesse sorpassare le sei ore e mezza
gli ispettori di fabbrica sottoposero al parlamento una statistica degli infami abusi permessi: invano.

L’Atto del 1850 venne finalmente integrato, nel 1853, con la proibizione di «adoperare fanciulli la mattina prima e, la sera dopo, gli adolescenti e le donne»:
da questo momento in poi, l’Atto sulle fabbriche del 1850 regolò la giornata lavorativa degli operai
era trascorso ormai mezzo secolo dall’emanazione del primo Atto sulle fabbriche: il principio si era affermato.




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Gli stessi fabbricanti, ai quali la regolazione della giornata lavorativa era stata strappata,
attraverso una guerra civile semisecolarem proclamavano ora che il riconoscimento della necessità di una giornata lavorativa regolata dalla legge era una nuova conquista della loro «scienza»;

dopo che i magnati della fabbrica si furono adattati all’inevitabile
-la forza di resistenza del capitale si indebolisse gradualmente,
-mentre la forza di attacco della classe operaia cresceva con gli alleati ch’essa trovava negli strati della società non direttamente interessati:
quindi, dopo il 1860, si ebbe un progresso relativamente rapido all’Atto sulle fabbriche del 1850, vennero assoggettate,
le tintorie e le officine di candeggio, le manifatture di merletti e pizzi e le fabbriche di calze
la manifattura di ogni tipo di terraglia, dei fiammiferi, delle capsule, delle cartucce, della carta da parati, e
numerosi processi lavorativi compresi sotto il nome rifinitura seguirono la sorte delle altre industrie.


7. LA LOTTA PER LA GIORNATA LAVORATIVA NORMALE. RIPERCUSSIONI IN ALTRI PAESI DELLA LEGISLAZIONE INGLESE SULLE FABBRICHE.

Il lettore ricorda che
la produzione di plusvalore ossia la estrazione di pluslavoro
costituisce contenuto e fine specifico della produzione capitalistica
ricorda che, dal punto di vista finora svolto
soltanto l’operaio indipendente e maggiorenne, contratta, come venditore di merce, con il capitalista
dunque il fatto che nel nostro schizzo storico le parti principali siano rappresentate
da un lato, dalla industria moderna
dall’altro dal lavoro di persone minorenni fisicamente e giuridicamente,
significa che
la prima vale per noi come sfera particolare
il secondo come es. dell’estorsione di lavoro fino all’ultimo sangue.

dal semplice nesso dei dati di fatto storici risulta quanto segue:

in primo luogo:
l’impulso del capitale verso il prolungamento della giornata lavorativa,
viene soddisfatto in quelle industrie che prime furono rivoluzionate dall’acqua, dal vapore, dalle macchine
e che furono le prime creazioni del modo di produzione moderno: nelle filande e nelle tessitorie.

Il modo materiale di produzione cambiato
e i rapporti sociali fra produttori, cambiati in corrispondenza di quello,
dapprima creano eccessi mostruosi,
poi provocano il controllo sociale che delimita regola e rende uniforme per legge la giornata lavorativa,
quindi,
durante la prima metà del secolo XIX, questo controllo si presenta solo come legislazione eccezionale:
appena il controllo ebbe conquistato il regno del nuovo modo di produzione,
si trovò che non solo molte altre branche della produzione erano nel regime di fabbrica,
ma anche manifatture condotte in modo più o meno invecchiato, come ceramiche, vetrerie,
mestieri antiquati, artigiani come quello del fornaio,
ed infine anche il cosiddetto lavoro a domicilio
si erano dati da lungo tempo allo sfruttamento capitalistico, nello stesso modo che la fabbrica:
quindi  la legislazione fu costretta a spogliarsi del suo carattere eccezionale;
oppure, dovette dichiarare di proprio arbitrio che ogni edificio dove si lavori è una fabbrica;




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in secondo luogo:
la storia della regolazione della giornata lavorativa la lotta che ancora dura per tale regolazione
dimostrano che il lavoratore isolato, il lavoratore come «libero» venditore della propria forza- lavoro
soccombe quando la produzione capitalistica ha raggiunto un certo grado di maturità:
dunque
la creazione della giornata lavorativa normale
è il prodotto di una guerra civile fra la classe dei capitalisti e la classe degli operai.
siccome la lotta si apre nell’ambito dell’industria moderna, si svolge dapprima nel paese che all’industria moderna ha dato i natali, l’Inghilterra:
gli operai delle fabbriche inglesi sono stati i campioni
non solo della classe operaia inglese
ma della classe operaia moderna in generale,
come i loro teorici gettarono per primi il guanto di sfida alla teoria del capitale.

La Francia viene zoppicando lentamente dietro l’Inghilterra.
Ha bisogno della rivoluzione di febbraio per partorire la legge delle dodici ore molto più difettosa dell’originale inglese.
Tuttavia il metodo rivoluzionario francese fa valere anch’esso i suoi peculiari pregi.
D’un sol colpo detta a tutti la medesima limitazione della giornata lavorativa, mentre la legislazione inglese cede  ora su questo punto, ora su quell’altro, alla pressione della situazioni.
Dall’altra parte, la legge francese proclama in linea di principio quello che in Inghilterra era stato ottenuto soltanto in nome dei fanciulli, dei minorenni, delle donne, e solo di recente viene rivendicato come diritto generale.

Negli Stati Uniti dell’America del Nord
ogni movimento operaio indipendente rimase paralizzato, finchè la schiavitù deturpava una parte della repubblica, con la fine della schiavitù germogliò subito una vita nuova:
il primo frutto della guerra civile fu l’agitazione per le otto ore:
il Congresso operaio generale di Baltimora (16 agosto 1866) dichiara:
«La prima e grande necessità del presente, per liberare il lavoro di questo paese dalla schiavitù capitalista, è la promulgazione di una legge per la quale otto ore devono costituire la giornata lavorativa normale in tutti gli Stati dell’Unione americana. Noi siamo decisi a impegnare. tutta la nostra forza fino a che sarà raggiunto questo glorioso risultato».

Contemporaneamente (primi di settembre del 1866) il Congresso operaio internazionale di Ginevra,
approvò la seguente risoluzione:
«Dichiariamo che la limitazione della giornata lavorativa è una condizione preliminare, senza la quale non possono non fallire tutti gli altri sforzi di emancipazione.
Proponiamo otto ore lavorative come limite legale della giornata lavorativa».

Così il movimento operaio, maturato istintivamente dai rapporti di produzione pone il suo sigillo alla dichiarazione dell’ispettore inglese di fabbrica R. J. Saunders:
«Non si potranno mai fare passi ulteriori per la riforma della società con qualche prospettiva di riuscita, se prima non si sarà limitata la giornata lavorativa e non sarà stata imposta rigorosamente la osservanza del limite prescritto».


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Il nostro operaio esce dal processo produttivo differente da quando vi era entrato:

sul mercato si era presentato come proprietario della merce “forza-lavoro»
di fronte ad altri proprietari di merci:
proprietario di merce di fronte a proprietario di merce
il contratto, per mezzo del quale aveva venduto al capitalista la propria forza-lavoro,
dimostrava che egli disponeva liberamente di sè stesso,

concluso l’affare, si scopre che
non era un libero agente»,
che il tempo per il quale egli può liberamente vendere la propria forza-lavoro
è il tempo per il quale egli è costretto a venderla  

a «protezione» gli operai debbono ottenere come classe, una legge di Stato
una barriera sociale che impedisca loro stessi di vender sè e i loro figli alla schiavitù
per mezzo di un volontario contratto con il capitale
al pomposo catalogo dei «diritti inalienabili dell’uomo»
subentra la modesta Magna Charta di una giornata lavorativa limitata dalla legge
che «chiarisce finalmente quando finisce il tempo venduto dall’operaio e quando comincia il tempo che appartiene all’operaio stesso».


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CAPITOLO 9
SAGGIO E MASSA DEL PLUSVALORE


In questo capitolo, come è stato fatto finora,
il valore della forza- lavoro
quindi la parte della giornata lavorativa necessaria alla riproduzione o conservazione della forza-lavoro
è assunto come grandezza costante data,
insieme al saggio è data anche
la massa del plusvalore fornita dal singolo operaio al capitalista entro un periodo di tempo determinato.

se il lavoro necessario ammonta a 6 ore giornaliere, espresse in una quantità d’oro di 36 €
36 € sarà il valore di una forza-lavoro ossia il valore capitale anticipato nell’acquisto di una forza-lavoro.
se il saggio del plusvalore ammonterà al 100%, questo capitale variabile di 36 €
produrrà una massa di plusvalore di 30 € ossia l’operaio fornirà giornalmente una massa di pluslavoro di 6 ore:
quindi
la massa del plusvalore prodotto è eguale al plusvalore fornito dalla giornata lavorativa
del singolo operaio, moltiplicato per il numero degli operai impiegati;

dato che la massa del plusvalore prodotta dal singolo operaio è determinata
quando sia dato il valore della forza-lavoro, dal saggio del plusvalore
ne consegue la prima legge:
la massa del plusvalore prodotto è eguale all’ammontare del capitale variabile anticipato,
moltiplicato per il saggio del plusvalore
ossia
è determinata dalla ragion composta del numero delle forze-lavoro sfruttate da uno stesso capitalista
e del grado di sfruttamento della singola forza-lavoro;
quindi
la diminuzione del capitale variabile è compensabile con l’aumento proporzionale del grado di sfruttamento della forza-lavoro
ossia
la diminuzione del numero degli operai occupati è compensabile con un prolungamento proporzionale della giornata lavorativa;
quindi entro certi limiti
la offerta di lavoro che il capitale può estorcere diventa indipendente dalla offerta di operai
viceversa
la diminuzione del saggio del plusvalore lascia invariata la massa del plusvalore prodotto
qualora l’ammontare del capitale variabile o il numero degli operai occupati aumentino in proporzione;
Seconda legge
il limite della giornata lavorativa media, per natura minore di ventiquattro ore,
costituisce un limite assoluto alla sostituzione della diminuzione del capitale variabile mediante l’aumento del saggio del plusvalore
ossia
alla sostituzione della diminuzione del numero degli operai sfruttati con un aumento del grado di sfruttamento della forza-lavoro.
questa seconda legge, di evidenza tangibile
è importante per la spiegazione di molti fenomeni che risalgono alla tendenza del capitale
alla massima riduzione del numero degli operai
ossia della propria componente variabile investita in forza-lavoro
tendenza in contrasto con l’altra sua tendenza a produrre la maggior massa possibile di plusvalore;
viceversa:
se aumenta la massa delle forze-lavoro impiegate ossia l’ammontare del capitale variabile
ma se questo aumento non è proporzionale alla diminuzione del saggio del plusvalore
la massa del plusvalore prodotto diminuisce;           



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una terza legge risulta dalla determinazione della massa del plusvalore prodotto
mediante i due fattori,
saggio del plusvalore e grandezza del capitale variabile anticipato,
dati
il saggio del plusvalore ossia il grado di sfruttamento della forza-lavoro e il valore della forza-lavoro
ossia la grandezza del tempo di lavoro necessario
la massa di valore e plusvalore prodotto sarà tanto maggiore quanto maggiore sarà il capitale variabile.
dato
-il limite della giornata lavorativa
-e il limite della sua parte costitutiva necessaria
la massa di valore e plusvalore prodotta da un capitalista singolo
dipende esclusivamente dalla massa di lavoro che egli mette in movimento;
quest’ultima dipende, entro i presupposti dati:
dalla massa della forza-lavoro, ossia dal numero degli operai che egli sfrutta e questo numero è determinato dalla grandezza del capitale variabile da lui anticipato,
dato
-il saggio del plusvalore
-e il valore della forza-lavoro
quindi
le masse del plusvalore prodotto variano in proporzione con le grandezze del capitale variabile anticipato;

si sa che il capitalista divide il suo capitale in due parti:
una parte la investe in mezzi di produzione: questa è la parte costante del suo capitale
l’altra la investe in forza-lavoro viva:            questa parte costituisce il suo capitale variabile,
sulla base del medesimo modo di produzione:
si ha una differente divisione del capitale in parte costante e parte variabile
a seconda della differenza dei rami della produzione:
entro il medesimo ramo di produzione
la proporzione varia col variare della base tecnica e della combinazione sociale del processo di produzione.

In qualunque maniera un capitale si divida in parte costante e parte variabile,
la legge ora stabilita non ne viene intaccata, giacchè, secondo la precedente analisi
il valore del capitale costante riappare      nel valore dei prodotti,
ma non entra                                                nel prodotto di valore di nuova creazione:
es.per impiegare mille filatori occorrono più materie prime, fusi ecc. che non per impiegarne cento:
ma sia che il valore di questi mezzi di produzione da aggiungersi aumenti, diminuisca, rimanga invariato
tale valore rimarrà senza influsso sul processo di valorizzazione delle forze-lavoro.
quindi
la legge sopra constatata assume questa forma:
le masse di valore e plusvalore prodotte da capitali diversi,
a valore dato ed essendo eguale il grado di sfruttamento della forza-lavoro,
variano in proporzione diretta
al variare delle grandezze delle parti variabili di quei capitali cioè delle loro parti convertite in forza-lavoro vivente.
Questa legge contraddice a ogni esperienza fondata sull’apparenza.
ognuno sa che un industriale che, calcolate le percentuali del capitale complessivo impiegato,
impieghi molto capitale costante e poco capitale variabile
non arraffa, per questo, un guadagno o un plusvalore minore
che non un fornaio che mette in movimento molto capitale variabile e poco capitale costante.



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Per risolvere quest’apparente contraddizione, occorrono molti termini intermedi:

Il lavoro viene messo in movimento dal capitale complessivo di una società
può essere considerato un’unica giornata lavorativa
es. il numero degli operai è di 1 milione e la giornata lavorativa di un operaio di 10 ore
la giornata lavorativa sociale sarà di 10 milioni di ore;
data la durata di questa giornata lavorativa
la massa del plusvalore può essere aumentata solo aumentando la popolazione operaia
aumento che costituisce il limite matematico della produzione di plusvalore ad opera del capitale complessivo sociale;
viceversa, quando l’entità della popolazione sia data
questo limite viene costituito dal possibile prolungamento della giornata lavorativa.

RIASSUNTO MARX

dalle considerazioni fatte fin qui sulla produzione del plusvalore risulta
-che non qualsiasi somma di denaro o di valore è trasformabile in capitale,
-che anzi tale trasformazione presuppone un minimo determinato di denaro o valore di scambio
 in mano al singolo possessore di denaro o di merci,
il minimo di capitale variabile
è il prezzo di costo di una singola forza-lavoro utilizzata tutto l’anno per la produzione di plusvalore;

se questo operaio fosse in possesso dei propri mezzi di produzione e si accontentasse di vivere da operaio,
gli basterebbe
-il tempo di lavoro necessario per la riproduzione dei suoi mezzi di sussistenza, diciamo 8 ore giornaliere
- e mezzi di produzione per 8 ore lavorative soltanto:
il capitalista, invece, che gli fa fare oltre a 8 ore, 4 ore di pluslavoro
abbisogna di una somma di denaro addizionale per procurarsi i mezzi di produzione addizionali.
tuttavia, data la nostra ipotesi,
dovrebbe impiegare 2 operai per poter vivere, col plusvalore che si appropria
cioè per poter soddisfare i suoi bisogni di prima necessità.
in tal caso, scopo della sua produzione
sarebbe il emplice sostentamento
non l’aumento della ricchezza
mentre quest’ultimo è il presupposto della produzione capitalistica;
un certo livello della produzione capitalistica implica che
il capitalista possa impiegare il tempo durante il quale funziona da capitalista
nell’appropriazione e quindi nel controllo del lavoro altrui e nella vendita dei prodotti di tale lavoro.
-le corporazioni del medioevo
cercarono d’impedire con la forza la trasformazione del maestro artigiano in capitalista
limitando il numero dei lavoratori che il singolo maestro aveva diritto di impiegare,
-il possessore di denaro o di merci si trasforma in capitalista
solo quando la somma minima anticipata per la produzione supera il massimo medioevale
qui, come nelle scienze naturali, si rivela la validità della legge di Hegel nella Logica
mutamenti quantitativi si risolvono a un certo punto in differenze qualitative;
il minimo della somma di valore,
di cui deve disporre il possessore di denaro o di merci per compiere la sua metamorfosi in capitalista,
varia nei diversi gradi di sviluppo della produzione capitalistica
ed è diverso nelle diverse sfere della produzione, a grado di sviluppo dato, secondo le loro particolari condizioni tecniche.


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In rilievo pochi punti principali:
All’interno del processo di produzione
il capitale si è sviluppato in comando sul lavoro, cioè sulla forza-lavoro ossia sul l’operaio.  
il capitale personificato, il capitalista, vigila
affinché l’operaio compia il suo lavoro regolarmente e con il dovuto grado di intensità.
il capitale si è sviluppato in un rapporto di coercizione che forza la classe operaia
a compiere un lavoro maggiore di quello richiesto dalle sue necessità vitali,
il capitale, come pompatore di pluslavoro e sfruttatore di forza-lavoro,
supera in dismisura ed efficacia tutti i sistemi di produzione del passato fondati sul lavoro forzato diretto;

in un primo tempo,
il capitale subordina a sé il lavoro nelle condizioni tecnichest e storicamente date in cui lo trova:
perciò non cambia immediatamente il modo di produzione.,
la produzione di plusvalore
nella forma sin qui contemplata, mediante il semplice prolungamento della giornata lavorativa,
si è presentata indipendente da ogni cambiamento del modo di produzione.

Se consideriamo il processo di produzione dal punto di vista del processo lavorativo,
l’operaio non trattava i mezzi di produzione come capitale
ma come semplice mezzo e materiale della sua attività produttiva adeguata allo scopo
in una conceria, per es. egli tratta le pelli semplicemente come suo oggetto di lavoro;

le cose stanno diversamente se consideriamo il processo di produzione
dal punto di vista del processo di valorizzazione:
i mezzi di produzione si trasformano in mezzi di assorbimento di lavoro altrui.
non è più l’operaio che adopera i mezzi di produzione,
ma sono i mezzi di produzione che adoperano l’operaio
invece di venire da lui consumati come elementi materiali della sua attività produttiva
essi consumano lui come fermento del loro processo vitale
e il processo vitale del capitale consiste nel suo movimento di valore che valorizza se stesso.
La semplice trasformazione del denaro
in un certo numero di fattori oggettivi del processo di produzione, in mezzi di produzione
trasforma questi ultimi in titolo giuridico e d’imperio sul lavoro e sul pluslavoro altrui.



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SEZIONE IV
LA PRODUZIONE DEL PLUSVALORE RELATIVO

CAPITOLO 10
CONCETTO DEL PLUSVALORE RELATIVO


(RIASSUNTO dal Cap 23
nella quarta sezione abbiamo mostrato
come lo sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro presupponga una cooperazione su larga scala,
come solo con questo presupposto possano
essere organizzate la divisione e la combinazione del lavoro,
essere economizzati i mezzi di produzione concentrandoli in massa,
essere creati mezzi di lavoro già adoperabili solo in comune es. il sistema delle macchine;
come forze immense della natura
possano essere costrette al servizio della produzione
e possa compiersi la trasformazione del processo di produzione in applicazione tecnologica della scienza.
Sulla base della produzione delle merci
nella quale i mezzi di produzione sono proprietà di persone private,
nella quale il lavoratore manuale o produce le merci isolato e autonomo, oppure vende come merce la propria forza-lavoro perchè gli mancano i mezzi per un’azienda autonoma,
quel presupposto si attua solo grazie all’aumento dei capitali individuali,
oppure si attua nella misura in cui i mezzi di produzione e di sussistenza sociali vengono trasformati in proprietà privata di capitalisti.)

Finora, per noi
quella parte della giornata lavorativa che produce un equivalente del valore della forza-lavoro
pagato dal capitale, è stata una grandezza costante:
lo è in date condizioni di produzione, a un dato grado di sviluppo economico della società
oltre questo tempo necessario di lavoro, l’operaio poteva lavorare due, tre, quattro, ecc:
il saggio del plusvalore e la grandezza della giornata lavorativa
dipendevano dalla grandezza di quel prolungamento:
se il tempo necessario di lavoro era costante, la giornata lavorativa complessiva era invece variabile.

Si supponga ora
una giornata lavorativa la cui grandezza e la cui suddivisione in lavoro necessario e pluslavoro siano date,
es:
la linea a ------- c, a -------- b ------ c, rappresenti una giornata lavorativa di 12 ore
il segmento a----------- b                    rappresenti 10 ore di lavoro necessario
il segmento b ----- c                           rappresenti 2 ore di pluslavoro
come si può aumentare la produzione di plusvalore, cioè come si può prolungare il pluslavoro
indipendentemente da ogni altro prolungamento di a----------- c?

Nonostante che i limiti della giornata lavorativa a ---------- c siano dati,
b ------ c sembra prolungabile, se non mediante estensione oltre il suo termine c, (che è anche termine della giornata a ------------ c ) mediante lo spostamento del suo inizio b in direzione opposta, verso a
supponiamo che in 
b’ --- b sia eguale alla metà di b ------ c, cioè a 1 ora lavorativa
se ora nella giornata lavorativa a --------- c, di 12 ore, si sposta a b’ il punto b,  
b ------ c si estenderà a b’ ------------ c,
il pluslavoro crescerà della metà, cioè da 2 a 3 ore,
benchè la giornata lavorativa conti come prima solo 12 ore
ma questa estensione del pluslavoro da b ------ c a b’ ----------- c, da 2 a 3 ore,
è impossibile senza una contrazione del lavoro necessario da a -------- b ad  a --------b’, da 10 a 9 ore
al prolungamento del pluslavoro corrisponderebbe l’accorciamento del lavoro necessario
cioè, una parte del tempo di lavoro che l’operaio ha consumato per sé
si trasforma in tempo di lavoro per il capitalista:
vien cambiato, non la durata della giornata lavorativa ma la sua suddivisione in lavoro necessario e pluslavoro;


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d’altra parte, la grandezza del pluslavoro è data anch’essa,
quando siano dati la grandezza della giornata lavorativa e il valore della forza-lavoro:

Il valore della forza-lavoro, cioè il tempo di lavoro richiesto per la produzione di essa,
determina il tempo di lavoro necessario per la riproduzione del suo valore.
Se un’ora di lavoro si rappresenta in una quantità d’oro di 6 € e se il valore della forza-lavoro ammonta a 60 € al giorno,

l’operaio deve lavorare 10 ore al giorno per reintegrare il valore giornaliero della sua forza-lavoro che gli è pagato dal capitale,
ossia: per produrre un equivalente del valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari.

Quando è dato il valore di questi mezzi di sussistenza: è dato il valore della forza-lavoro dell’operaio,
e quando questo è dato: è data anche la grandezza del suo tempo di lavoro necessario.

Ma la grandezza del pluslavoro si ottiene sottraendo, dalla giornata lavorativa complessiva,
il tempo necessario di lavoro

stabilito il presupposto,
che le merci e la forza-lavoro, vengano comprate e vendute al loro pieno valore,

il tempo di lavoro necessario per la produzione della forza-lavoro ossia per la riproduzione del suo valore
non può diminuire per il fatto che il salario dell’operaio cali al di sotto del valore della sua forza-lavoro,
ma può diminuire quando cali questo stesso  

data la durata della giornata lavorativa,
il prolungamento del pluslavoro deve derivare dall’accorciamento del tempo di lavoro necessario,
e non viceversa,
cioè l’accorciamento del tempo di lavoro necessario non deve derivare dal prolungamento del pluslavoro.
es.
un calzolaio è in grado di fare in una giornata lavorativa di 12 ore, un paio di stivali,
se dovesse fare due paia di stivali nello stesso tempo, la forza produttiva del suo lavoro dovrebbe raddoppiare; ma essa non può raddoppiare senza un mutamento dei suoi mezzi di lavoro o del suo metodo di lavoro:
deve subentrare una rivoluzione nel suo modo di produzione e nello stesso processo lavorativo.

Per aumento della forza produttiva del lavoro intendiamo qui
un mutamento nel processo lavorativo
per il quale si abbrevia il tempo di lavoro richiesto socialmente per la produzione di una merce,
per il quale una minor quantità di lavoro acquista la forza di produrre una maggior quantità di valore d’uso;

mentre
-nella produzione del plusvalore nella figura fin qui considerato, si supponeva come dato il modo di produzione

-per la produzione di plusvalore mediante trasformazione di lavoro necessario in pluslavoro
non basta che il capitale s’impossessi del processo lavorativo e ne prolunghi la durata:

il capitale deve metter sottosopra le condizioni tecniche-sociali del processo lavorativo, cioè lo stesso modo di produzione,
per aumentare la forza produttiva del lavoro,
per diminuire il valore della forza-lavoro mediante l’aumento della forza produttiva del lavoro,
per abbreviare così la parte della giornata lavorativa necessaria alla riproduzione di tale valore:



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chiamo plusvalore assoluto, il plusvalore prodotto mediante prolungamento della giornata lavorativa;
invece,
chiamo plusvalore relativo il plusvalore che deriva
dall’accorciamento del tempo di lavoro necessario
e dal corrispondente cambiamento nel rapporto di grandezza delle due parti costitutive della giornata lavorativa.

L’aumento della forza produttiva, se vuol diminuire il valore della forza-lavoro,
deve impadronirsi dei rami d’industria i cui prodotti determinano il valore della forza-lavoro
cioè appartengono, alla sfera dei mezzi di sussistenza, oppure li possono sostituire.

Ma il valore di una merce
non è determinato solo dalla quantità del lavoro che le dà l’ultima forma
ma anche dalla massa di lavoro contenuta nei suoi mezzi di produzione:
es.
il valore d’uno stivale non è determinato
solo dal lavoro del calzolaio
ma anche dal valore del cuoio, del filo, ecc.

dunque
anche l’aumento della forza produttiva e la corrispondente riduzione a più buon mercato delle merci
nelle industrie che forniscon i mezzi di lavoro e il materiale di lavoro per la produzione dei mezzi di sussistenza  
fanno anch’essi calare il valore della forza-lavoro;

invece,
nelle branche della produzione che non forniscono nè mezzi di sussistenza necessari, né mezzi di produzione
l’aumento della forza produttiva lascia intatto il valore della forza-lavoro.

È ovvio che

-la merce ridotta più a buon mercato fa calare il valore della forza-lavoro
solo nella proporzione in cui trapassa nella riproduzione della forza-lavoro,

-la somma complessiva dei mezzi di sussistenza necessari
consiste solo di merci differenti, tutte prodotti di industrie particolari,

-il valore di ognuna di queste merci costituisce suna parte aliquota del valore della forza-lavoro:
questo valore decresce col decrescere del tempo di lavoro necessario per la sua riproduzione
l’accorciamento complessivo di questo tempo di lavoro è eguale alla somma dei suoi accorciamenti in tutti quei rami particolari di produzione.

Quando un singolo capitalista
riduce più a buon mercato, per es. le camicie, mediante un aumento della forza produttiva del lavoro
non è necessario che si proponga il fine di far calare il valore della forza-lavoro e quindi il tempo di lavoro necessario;
ma egli contribuisce ad aumentare il saggio generale del plusvalore
solo in quanto e per quanto
finisce per contribuire al risultato di far calare il valore della forza-lavoro.



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Bisogna distinguere
le tendenze generali e necessarie del capitale
dalle forme nelle quali esse si presentano

per intendere la produzione del plusvalore relativo sul solo fondamento dei risultati già raggiunti,
è da osservare quanto segue:

se 1 ora di lavoro si rappresenta in una quantità d’oro di 6 €,
nella giornata lavorativa di 12 ore si produce un valore di 6 x 12 = 72 €
supponiamo che
con la forza produttiva del lavoro data si finiscano in 12 ore, 12 pezzi d’una merce e che il pluslavoro sia di 2 ore;
il valore dei mezzi di produzione, es. materie prime,consumate in ogni pezzo, sia di 6 €
costo mezzi di produzione       costo forza lavoro   plusvalore               totale valore della merce prodotta
72                                                         60                             12                                     144
A queste condizioni, la singola merce costa [(6 x 12) + (6 x 10) + (6 x 2)] : 12 = 144 : 12 = 12 €
cioè 6 € per il valore dei mezzi di produzione e 6 € per il valore nuovo aggiunto nella sua lavorazione.

Nonostante il raddoppio della forza produttiva,
la giornata lavorativa produce anche adesso solo un neovalore come prima:
ma ora questo si distribuisce su un numero doppio di prodotti singoli.
quindi ora
ai mezzi di produzione viene aggiunta solo mezz’ora di lavoro durante la loro trasformazione in prodotti,
calcolando pezzo per pezzo, invece di un’ora intera come prima.
ora
il valore individuale di questa merce costa meno tempo di lavoro di quanto ne costi il cumulo degli stessi articoli prodotto nelle condizioni sociali medie.
il pezzo  rappresenta due ore di lavoro sociale:
col modo di produzione cambiato contiene solo un’ora e mezza di lavoro sociale;

ma il valore reale di una merce
non è il suo valore individuale, bensì il suo valore sociale:
cioè il suo valore sociale non viene misurato col tempo di lavoro che costa al produttore nel singolo caso,
ma mediante il tempo di lavoro richiesto socialmente per la sua produzione;
se il capitalista, che applica il nuovo metodo,
vende la propria merce al suo valore sociale la vende al di sopra del suo valore individuale
realizzando così un plusvalore straordinario

d’altra parte
per lui ora la giornata lavorativa di 12 ore è rappresentata da 24 pezzi della merce, invece che dai 12 di prima,
dunque,
per vendere il prodotto di una sola giornata lavorativa
ha bisogno di uno smercio doppio, ossia di un mercato due volte più grande:
le sue merci conquistano un mercato più vasto solo mediante una contrazione dei loro prezzi:
quindi
-le venderà al di sopra del loro valore individuale,
-al di sotto del loro valore sociale:
anche in tal caso, ricaverà sempre un plusvalore straordinario per ogni singolo pezzo.




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Per lui, questo aumento del plusvalore ha luogo
tanto se
la sua merce appartiene alla sfera dei mezzi di sussistenza necessari,
e quindi trapassa nel valore generale della forza-lavoro,
quanto se ciò non avviene.
dunque
per ogni singolo capitalista
esiste il motivo per ridurre la merce più a buon mercato aumentando la forza produttiva del lavoro;
però, anche in questo caso,
l’aumento della produzione di plusvalore deriva
dall’accorciamento del tempo di lavoro necessario e dal corrispondente prolungamento del pluslavoro.
Quindi
il capitalista che applica il modo di produzione perfezionato,
si appropria per il pluslavoro
-una parte della giornata lavorativa maggiore di quella appropriatasi dagli altri capitalisti:
-fa quel che il capitale fa in grande e in generale nella produzione del plusvalore relativo;
d’altra parte
quel plusvalore straordinario
scompare appena il nuovo modo di produzione si generalizza
e con ciò scompare la differenza fra il valore individuale delle merci prodotte più a buon mercato e il loro valore sociale,
gli altri capitalisti, nella forma di legge coercitiva della concorrenza, sono costretti a introdurre il nuovo modo di produzione,
dunque,
il saggio generale del plusvalore è intaccato da tutto questo processo
solo quando l’aumento della forza produttiva del lavoro s’è impadronito di rami di produzione,
e dunque
ha ridotto a buon mercato merci che entrano nella cerchia dei mezzi necessari di sussistenza
e quindi
costituiscono elementi del valore della forza-lavoro.

Il valore delle merci sta in rapporto inverso alla forza produttiva del lavoro;
e altrettanto il valore della forza-lavoro, perchè determinato da valori di merci
invece
il plusvalore relativo sta in rapporto diretto alla forza produttiva del lavoro:
cresce col crescere della forza produttiva, e cala col calare di essa.

Una giornata lavorativa sociale media di 12 ore, presupponendo invariato il valore del denaro, dà sempre lo stesso prodotto di valore di 72 €, in qualunque modo questa somma si distribuisca fra equivalente per il valore della forza-lavoro e plusvalore.
Se, in seguito all’aumento della forza produttiva, il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani e quindi il valore giornaliero della forza-lavoro cala da 60 € a 36 €, allora il plusvalore sale da 12 € a 36 €.
Per riprodurre il valore della forza-lavoro: prima erano necessarie dieci ore di lavoro, e ora solo sei.
Quattro ore di lavoro sono disponibili e possono venire annesse ai domini del pluslavoro.

quindi
è tendenza costante del capitale aumentare la forza produttiva del lavoro
per ridurre più a buon mercato la merce
e con tale riduzione ridurre più a buon mercato l’operaio,

per il capitalista
che produce la merce, il valore assoluto di questa è indifferente gli interessa solo il plusvalore insito nella merce e realizzabile nella vendita:
la realizzazione di plusvalore implica la reintegrazione del valore anticipato.



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Poichè
il plusvalore relativo cresce in proporzione diretta dello sviluppo della forza produttiva del lavoro
mentre
il valore delle merci cala in proporzione inversa dello stesso sviluppo
poichè dunque
il medesimo processo riduce più a buon mercato le merci e aumenta il plusvalore in esse contenuto,

ecco risolto l’enigma perchè il capitalista
che si preoccupa solo della produzione di valori di scambio, cerchi di far calare il valore di scambio delle merci.

dunque nella produzione capitalistica

la economia di lavoro mediante lo sviluppo della forza produttiva del lavoro
non ha lo scopo di abbreviare        la giornata lavorativa,
ha solo lo scopo di abbreviare        il tempo di lavoro necessario per la produzione di una determinata quantità di merci.

Che per l’aumento della forza produttiva del suo lavoro, l’operaio produca in un’ora per esempio il decuplo di merce di prima e consumi quindi per ogni pezzo il decimo di tempo di lavoro,
non impedisce di farlo lavorare dodici ore come prima,
e che gli si facciano produrre in queste dodici ore milleduecento pezzi invece dei centoventi di prima.

Entro i limiti della produzione capitalistica

lo sviluppo della forza produttiva del lavoro
ha lo scopo di abbreviare la parte della giornata lavorativa nella quale l’operaio deve lavorare per sè stesso,

per prolungare, con questo mezzo
l’altra parte della giornata lavorativa nella quale l’operaio può lavorare gratuitamente per il capitalista.



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