lunedì 2 novembre 2020

HEIDEGGER: L'ESSERE - I QUADERNI NERI




Ma che cosa vuol dire storia dell’Essere? Non è né una visione della storia né, tanto meno, l’oggetto di una storiografia.
Geschichte, storia, rinvia a Geschehen, accadere. La storia dell’Essere è l’accadere dell’Essere, che si dà ogni volta nel suo frangersi storico.

Il grande problema della filosofia, l’essere, viene riletto alla luce della sua storia, affinché questo verbo, così evanescente e misterioso, possa liberarsi della cristallizzazione metafisica che dell’infinito grammaticale"essere" ha fatto un ente tra gli altri. 


La storia dell’essere è l’ontologia è la fondazione d’ontologia è la distruzione dell’ontologia catastrofe della radurapsodiabixaleventusublimexstasyx dell’essere è eventux dell’Essere,
ma anche dal suo abbandono. 

L’ente sembra non trovare più il vincolo che pure lo lega all’essere. Con insistenza quasi ossessiva Heidegger denuncia la Seinsverlassenheit, che intende in duplice senso, sia come abbandono dell’Essere, sia come abbandono da parte dell’Essere. 

Nell’approssimarsi della fine, mentre si apre il passaggio all’altro inizio, l’Essere si ritrae. Si può dire, anzi, che il suo ritrarsi, dimenticato, velato, occultato, sia l’indizio del nichilismo compiuto, della fine ineluttabile della modernità, la fase ultima della metafisica. È la notte dell’Essere.

Nelle Riflessioni VIII, del 1938/39, Heidegger scrive: «la notte appartiene però all’Essere, non ne è solo una "immagine"», non rende sensibile quel che non è sensibile,dato che la notte non è «nulla di oggettuale e di rappresentabile, nulla di essente – bensì un essenziarsi dell’Essere».

La notte non ha un timbro negativo; lo avrebbe, se fosse giudicata come negazione del giorno,
così come il freddo viene giudicato come negazione del caldo. Ma «freddo e notte sono gli scrigni nascosti in cui quel che è semplice si preserva intatto». 

L’Essere che appartiene al freddo della notte, che lì si è ritratto trovando riparo, in attesa della fine incombente, è il protagonista oscuro dei Quaderni neri. Di un tono esoterico...

Heidegger deve aver sempre pensato ai suoi destinatari, sia come scrittore che come oratore. 
Tra lezioni,conferenze, seminari, discorsi politici, lettere, saggi, interpretazioni, opere di carattere speculativo, le differenze sono lampanti. 

Si può ipotizzare una dimensione esoterica della sua filosofia?
Seguendo un suggerimento di Volpi, è forse opportuno avvicinare il modo in cui Heidegger ripartisce i propri scritti al criterio con il quale la tradizione ha suddiviso il corpus Aristotelicum. 

La distinzione fra scritti essoterici, cioè destinati al pubblico, e scritti esoterici, riservati a pochi, delinea, nel segno della continuità, un percorso iniziatico. 

In una nota autobiografica del 1937/38 Über die Bewahrung des Versuchten, allegata al testamento Wunsch und Wille, è lo stesso Heidegger a proporre la ripartizione che può essere riassunta così:
le lezioni universitarie
le conferenze
gli appunti per le esercitazioni seminariali
i lavori preliminari all’opera
riflessioni e cenni
il corso su Hölderlin (semestre invernale 1934/35) e gli appunti su Empedocle,

Dall’evento (Contributi alla filosofia).

In questa gerarchia, dove i Contributi dovrebbero rappresentare il culmine, cioè il punto più vicino ai recessi intangibili e arcani dell’Essere, i Quaderni neri, indicati con il titolo «riflessioni e cenni», occupano il penultimo posto. 

Heidegger ne sottolinea l’inclinazione alla domanda, la vastità dell’orizzonte, l’immediatezza –sono «sorti sull’onda del momento» – e lo «sforzo ininterrotto intorno all’unica questione». L’aura, che aleggia intorno ai Contributi, spira anche sui Quaderni neri,  li avvolge nel segreto. 
Entrambi, d’altronde, per volontà di Heidegger, sarebbero usciti postumi. 

Li accomuna uno stile criptico, che privilegia brevità, insistenza, ripetitività, un linguaggio piegato fino all’esasperazione, per sottrarsi al dominio della metafisica, e infine quell’unica meta, l’Essere, che sembra quasi allontanarsi via via che il percorso iniziatico giunge all’apice. 

Ma se i Contributi paiono più il distillato filosofico, i Quaderni neri, pur serbando il tono esoterico, e anzi proprio per questo, sono scritti con spontanea libertà, e liberamente trattano temi la questione dell’essere e la questione ebraica  di politica, teologia, filosofia, nel loro inestricabile intreccio, raccontano la storia solitaria e tragica di Heidegger, il suo immane naufragio.

Antisemitismo e i dubbi mai fugati.

Già prima della pubblicazione dei Quaderni neri sono andati affiorando indizi e prove che hanno sollevato dubbi e alimentato sospetti sull’antisemitismo di Heidegger.
Alle testimonianze sparse dei contemporanei si sono aggiunti alcuni documenti accademici riservati e, quasi in un crescendo, le lettere private. 
Si tratta di scritti non filosofici che, nell’intenzione dell’autore, non dovevano essere resi pubblici. 

La differenza rispetto ai Quaderni neri non va dunque trascurata. Tuttavia, anche per la
continuità dei temi, la similarità dei toni, un atteggiamento di Heidegger che si ripete, il contesto documentario rappresenta un accesso imprescindibile alle pagine dei Quaderni neri.

Nell’inverno del 1933, prima che fra loro cadesse un lungo silenzio fino al 1950, Heidegger inviò un’ultima lettera a Hannah Arendt che gli aveva espresso il suo disappunto per le voci che circolavano. 

Si diceva che all’università Heidegger discriminasse gli ebrei e che si comportasse da antisemita. La parola Jude, ebreo, fra di loro tabuizzata, comparve finalmente nella corrispondenza.
Heidegger si difese negando con forza e respingendo con sarcasmo quelle voci.

"Cara Hannah,

le dicerie che ti inquietano sono calunnie, del tutto simili ad altre esperienze che mi sono toccate negli ultimi anni. […] Che io non saluti gli ebrei è una calunnia così maligna che me la ricorderò per il futuro. Per spiegarti quali siano i miei rapporti con gli ebrei, ti elenco semplicemente i seguenti fatti.

C’è qualcuno che, dovendo conseguire urgentemente il dottorato, è venuto a chiederlo a me, e io l’ho accettato: è un ebreo. C’è un altro che viene da me tutti i mesi, per riferirmi di un grosso lavoro in fase di elaborazione (che non è né una tesi di dottorato né di libera docenza), ed è di nuovo un ebreo. 

Un altro ancora mi ha spedito alcune settimane fa un ampio lavoro perché io lo rivedessi urgentemente: anche lui è un ebreo.
Sono ebrei due borsisti a cui negli ultimi tre semestri ho fatto avere i sussidi della Notgemeinschaft. 
Un altro ebreo ancora ha ottenuto, grazie a me, una borsa per Roma.
Chi voglia chiamare tutto ciò "antisemitismo militante", lo faccia pure.

Peraltro in questioni universitarie sono antisemita adesso quanto lo ero dieci anni fa a Marburgo, quando questa mia posizione antisemita ebbe perfino l’appoggio di Jacobstahl e Friedländer.
Questo non ha niente a che vedere con i miei rapporti personali con ebrei (per es. con Husserl, Misch, Cassirer e altri).
E tanto meno può toccare la mia relazione con te".

Come reagì Hannah Arendt a una lettera del genere?

Che cosa pensò della parola Jude, che scandisce il testo, e con cui Heidegger traccia una separazione netta tra tedeschi e ebrei, tra se stesso e quegli ebrei tedeschi, colleghi e allievi, dei quali viene sottolineata la sola appartenenza ebraica e il numero non esiguo? 

Certo questa lettera dovette contribuire alla scelta di Arendt che lasciò la Germania nell’agosto del 1933.
La difesa di Heidegger è talmente ambigua da volgersi in un’autoaccusa. Al di là del tono irato, con cui rivendica la sua generosa disponibilità e gli speciali favori accordati agli ebrei, quel che colpisce è il modo in cui reclama il diritto a essere «antisemita» in questioni universitarie.

Un conto sarebbe l’antisemitismo enragiert, arrabbiato, rabbioso, accanito, un altro quello accademico. 
Come se dunque l’antisemitismo all’università fosse motivato, razionale al punto da non avere ripercussioni sui rapporti personali.

Sono peraltro questi i due argomenti che ancor oggi vengono addotti da coloro che tentano di scagionare Heidegger.

Il primo argomento, a ben guardare un ragio
namento capzioso introduce surrettiziamente una distinzione tra l’antisemitismo militante, biologico, razzista,nazista, e l’antisemitismo cultural-universitario, che sivorrebbe aleatorio e innocuo. 

L’argomento suona così: dato che l’antisemitismo è biologico, e Heidegger non condivideva questa ideologia razzista, non può essere accusato di antisemitismo. 

Il secondo argomento
riguarda gli amici: dato che Heidegger ha avuto per anni e decenni rapporti con ebrei, non deve essere stato antisemita.

Nella Germania del tempo, in cui vivevano oltre cinquecentomila ebrei, non doveva essere facile evitare ogni frequentazione. 
Furono i provvedimenti del Reich, che dall’aprile 1933 cominciarono a escludere gli ebrei dagli
uffici, dalla sfera pubblica e, con ritmo sempre più rapido, dalla vita del paese, a definire i limiti delle relazioni umane. 

Ma al di là dei provvedimenti, anche gli antisemiti convinti e dichiarati, non avevano alcuna difficoltà – come ricorda ad esempio Löwith – a «scindere le relazioni personali con gli ebrei dalle necessità "oggettive"della politica nazionalsocialista». 
Questa era la norma anche per il giurista Carl Schmitt.

La situazione quasi schizofrenica non sfuggì a un’acuta osservatrice come Simone Weil che, in visita a Berlino, in una lettera dell’agosto 1932, scrisse: «ma ancora una volta i sentimenti,
antisemiti e nazionalisti, non appaiono affatto nei rapporti personali».

Nell’università, e in genere nel mondo intellettuale, la presenza ebraica era notevole.
Era forse per questo inevitabile reagire con un antisemitismo concorrenziale, universitario o spirituale? Era comprensibile il timore per laVerjudung, la giudaizzazione dell’università?

Due volte almeno Heidegger ha usato questa parola. 

In una lettera del 2 ottobre 1929 metteva in guardia Viktor Schwoerer, un alto funzionario del Ministero dell’Istruzione: siamo di fronte all’alternativa: o dotiamo di nuovo la nostra vita spirituale tedesca di forze e educatori autentici e autoctoni [bodenständ - ig], oppure la consegniamo definitivamente alla crescente giudaizzazione, in senso sia ampio che stretto.

Ma molti anni prima, in una lettera del 18 ottobre 1916, indirizzata alla futura moglie, Heidegger scriveva:

"La giudaizzazione della nostra cultura e delle nostre università è in effetti spaventosa e ritengo che la razza tedesca dovrebbe trovare sufficienti energie interiori per ritornare in auge. 
Quanto meno il capitale!
In senso stretto la «giudaizzazione» indica il numero elevato di ebrei presenti all’università; in senso ampio rinvia alla contaminazione ebraica dello spirito tedesco".

I due sensi, quello numerico e quello spirituale, sono ovviamente connessi. 

Molto diffusa in quegli anni, la parola era stata usata da Richard Wagner nel suo saggio
L’ebraismo nella musica, pubblicato con uno pseudonimo nel 1850.
Sin dalle prime pagine, Wagner punta l’indice contro l’emancipazione. Der Jude, l’Ebreo è ormai «più che emancipato», al punto che «ora regna». 
Ne sarebbe una prova la «giudaizzazione dell’arte moderna» che «salta agli occhi». 

L’emancipazione ha dato luogo non all’uguaglianza, bensì al predominio degli ebrei. 
Per sottolineare il rovesciamento nei rapporti di forza, Wagner auspica «un’emancipazione dall’oppressione ebraica».

Così formula la tesi di fondo dell’antisemitismo moderno che, pur nella continuità, proprio qui si distingue dall’antigiudaismo cristiano: Verjudung è la metafora del dominio ebraico. 

La civiltà europea è rimasta estranea all’ebreo che, per quanti sforzi abbia fatto per assimilarsi, fino a cancellare talvolta la propria origine, nella sua natura permanente e immutabile è ontologicamente straniero.
Perciò mina l’arte, la cultura, lo spirito.

Da questa visione wagneriana scaturisce una nuova e più ampia la questione dell’essere e la questione ebraica  categoria di "Ebreo" la cui essenza negativa si manifesta nella capacità di contaminare con la sua degenerazione e la sua corruzione. 

Di più: la modernità diventa «l’epoca ebraica». Sono gli ebrei i veri responsabili di tutti i mali, mentre, per converso, l’ebraismo è «la cattiva coscienza della civiltà moderna».

Il tema della Verjudung, ripreso da Marr, viene sviluppato non solo da Dühring, ma anche da Hitler che, in Mein Kampf, oltre alle «università giudaizzate», lamenta la giudaizzazione «della nostra anima».

Parlare di Verjudung, come Heidegger fa in almeno due occasioni, e a distanza di anni, nel 1916 e nel 1929, non vuol dire subire l’influsso di una giudeofobia cristiana, ancora diffusa in quel cattolicesimo del Baden, forte del suo «strapotere sulle coscienze mascherato da devozione».

Piuttosto significa condividere una visione, forse stereotipata, ma comunque moderna, dell’ebreo e dell’ebraismo. 

Il timore per la presenza ebraica nell’università e l’ansia per la contaminazione della «vita spirituale tedesca» si inscrivono in un antisemitismo che nell’ebreo individua non un cittadino al pari degli altri, bensì un non-tedesco, un non-autoctono, irreparabilmente estraneo e indesiderabile.  

Per la giudaizzazione non è necessario il contatto: principio di impurità, l’ebreo è già impuro in tutto ciò che gli appartiene o che partecipa alla sua vita. 
C’è una scienza giudaica, un’arte giudaica, una musica giudaica, da cui occorre guardarsi. 

Si introduce così una separazione tra puro e impuro, sacro e profano, che verrà attestata e consolidata dalle leggi «sacrali» del Reich, prima fra tutte quella del 15 settembre 1935 «per la protezione del sangue tedesco e dell’onore tedesco».

Heidegger torna sul tema anche altrove, nelle lettere, pur senza ricorrere alla parola «giudaizzazione». 
È il caso in cui fa riferimento al volume Hölderlin und Diotima: Dichtungen und Briefe der Liebe, curato dal germanista Rudolf Ibel per la casa editrice ebraica Manesse. 

L’8 settembre 1920 scrive:

"Lo Hölderlin di Manesse fa ridere per quanto è grottesco – riusciremo mai a liberarci di questa infezione per giungere a un’originaria freschezza di vita e a un radicamento nella terra [?] – a volte si è ormai tentati di diventare culturalmente antisemiti".

Con alcune varianti, la metafora biologica della contaminazione, l’immagine di un veleno materiale che dovrebbe infettare, corrompere, guastare lo spirito, riaffiora in una lettera spedita a Elfride da Friburgo il 20 giugno 1932:

Ciò che scrivi circa la rivista ebraica e quel Tick [?] l’avevo pensato anch’io. Qui non si è mai abbastanza diffidenti. […] Ma come ho già scritto – per quanta forza di volontà i nazisti esigano, è sempre meglio di questa strisciante intossicazione che va sotto il nome di "civiltà" e di "spirito", e alla quale negli ultimi decenni siamo stati esposti".

La corrispondenza non è completa. 
Ma Gertrude Heidegger, la curatrice, sostiene di aver inserito, «per prevenire speculazioni», tutte le lettere in suo possesso «scritte fra il 1933 e il 1938, citando anche tutte le affermazioni antisemite e politiche relative al nazismo, complessivamente rare».

L’argomento della rarità non sembra, però, avere qui molto senso – non solo perché non si è certi che il materiale sia completo, ma anche perché evidentemente non è il numero ad essere decisivo.
Se si leggono le lettere seguendo le occorrenze della parola Jude, ne viene un antisemitismo relativamente comune, costituito da stereotipi ordinari e pregiudizi consueti. 

In una lettera scritta a Meßkirch il 12 agosto 1920 Heidegger annota:

"L’edizione di Lutero mi è ormai indispensabile […]. Qui si parla molto del fatto che adesso gli ebrei portano via molto bestiame acquistato nei villaggi e che in inverno non si troverà più carne […] –quassù i contadini diventano sempre più scontati e gli ebrei e i profittatori sono ormai un’invasione".

La questione dell’essere e la questione ebraica 

Secondo la visione più diffusa, gli ebrei sono accaparratori, intriganti, abili nel raggiro, avidi, attaccati al denaro, più colti, competitivi con gli altri, solidali tra loro, internazionalisti,comunisti.

Il 10 agosto 1924, raccontando del collega Jakobstahl, che ha brigato per far ottenere al suo assistente uno stipendio più alto, esclama: «questi ebrei!».

Il 9 febbraio 1928 commenta beffardamente una brillante valutazione redatta da Walter Bauer:
«naturalmente: i migliori sono – ebrei». Il 9 giugno 1932 osserva che, se «i nazisti sono ancora molto limitati sul piano culturale – e intellettuale», il comunismo, lontano dall’essere sconfitto, è destinato a diventare «una potenza enorme»; «adesso tutti gli intellettuali ebrei passano dall’altra parte; pare che il "Berliner Tagblatt" sia comunista ormai da un anno». 

E inoltre: «ogni giorno Trotzkij fa pubblicare in Germania un opuscoletto da 20 centesimi, in cui osserva e commenta la situazione e indica la via». 

Heidegger non sottovaluta la stampa:
«Baeumler mi ha abbonato alla "Jüdische Rundschau", ottima l’informazione e buono il livello. Ti invierò i vari numeri».

Il gesto della discriminazione, con cui si addita l’ebreo, riaffiora in una perizia su Baumgarten che nel 1933 gli era stata richiesta dall’associazione dei docenti di Gottinga.
A denunciarlo è Jaspers nel 1945: Heidegger ha detto di Baumgarten: «strinse assidui rapporti con l’ebreo Fraenkel».

Ma Heidegger si difende: «gergo di partito» – la trascrizione era parziale, la versione ultima non corrispondeva all’originale.

Ben più grave di questo documento, che ha suscitato molte polemiche, è il giudizio, non di rado passato sotto silenzio, di cui fu vittima Richard Hönigswald. 

Come in altri ambiti della scienza e della cultura, anche nella filosofia erano molti gli ebrei illustri, da Hermann Cohen a Edmund Husserl, da Georg Simmel a Max Scheler. 

Fra gli esponenti più prestigiosi del neokantismo, Hönigs - wald aveva insegnato a lungo a Breslavia, prima di trasferirsi nel 1930 a Monaco dove il primo settembre 1933 fu
messo anticipatamente in pensione.

Dal canto suo Heidegger andava speculando sulla possibilità di subentrargli in quella università che – confessava in una lettera del 19 settembre 1933 all’amica Elisabeth Blochmann (ebrea, in
procinto di emigrare) – non era «isolata» come Friburgo; in tale contesto annotava, di passaggio, un altro pregio di quella sede: «la possibilità di avvicinarmi a Hitler».

E'  difficile dire se Heidegger abbia contribuito all’allontanamento di Hönigswald; questo è il suo giudizio, stilato il 25 giugno 1933:

"Hönigswald viene dalla scuola del neokantismo che ha sostenuto una filosofia tagliata su misura per il  liberalismo. 
L’essenza dell’uomo è qui risolta in una coscienza liberamente sospesa nel vuoto [ein freischwebendes Bewusstsein], e questa, a sua volta, è diluita in una ragione del mondo logica e universale [allgemein logische Weltvernunft].

Così, con l’apparenza di una rigorosa fondazione scientifico-filosofica, l’attenzione viene sviata dall’uomo nel suo radicamento storico e in quella sua tradizione di popolo [volkhaft] che proviene da suolo e sangue [seiner Herkunft aus Boden und Blut]. 

A ciò si è accompagnato un consapevole rifiuto di ogni interrogare metafisico, mentre l’uomo non è che il servitore di un’indifferente cultura mondana universale. 
Da questa posizione di fondo sono derivati gli scritti e certo anche tutta l’attività accademica di
Hönigswald".

Al termine della lettera, Heidegger denunciava gli inganni, a cui la «vuota dialettica» di Hönigswald avrebbe esposto i giovani, e definiva la sua chiamata all’università di Monaco uno «scandalo» a cui evidentemente si doveva porre riparo.

Il 10 novembre 1938, durante la Notte dei cristalli, Hönigswald fu preso e internato nel campo di concentramento di Dachau. 
In seguito fu liberato solo grazie alle proteste internazionali, dovute alla sua fama, e riuscì a emigrare negli Stati Uniti nel dicembre 1939.

La questione dell’essere e la questione ebraica 

Metafore di un’assenza

Nei Quaderni neri i termini Jude, jüdisch, Judentum, compaiono per l’esattezza quattordici volte negli ultimi due volumi, cioè nelle Riflessioni che vanno dal 1938 al 1941. 

Se ne potrebbe dedurre che la presenza sporadica provi la marginalità di un tema che perciò sarebbe, alla fin fine, irrilevante. Ciò confermerebbe la tesi di chi sostiene che quei passi «non contaminano» la filosofia di Heidegger.

Occorre tuttavia sottolineare che le occorrenze del termine Jude, e dei suoi derivati, si inscrivono nel contesto filosofico in cui si delinea la storia dell’essere. Heidegger affronta, dunque, un tema non nuovo nella filosofia occidentale, quello del rapporto tra l’Essere e l’Ebreo.

Se nel drammatico scenario, in cui si decide la storia dell’essere e il destino dell’Occidente, all’Ebreo è riconosciuto sin dall’inizio il ruolo del protagonista, come si spiega il silenzio che sembrerebbe avvolgerlo? 

Nei numerosi indici delle parole chiave, che Heidegger stesso compone e inserisce alla fine di ogni quaderno, non ricorre mai il termine Jude. 

Perché questa esclusione sarebbe però anche lecito chiedersi come mai, nell’opera filosofica di Heidegger, concepita per la pubblicazione, l’Ebreo compaia a partire dal 1937, e come mai, fra il 1939 e il 1941, la sua presenza aumenti in modo esponenziale.

Il caso non è isolato, e analogie sono riscontrabili, ad esempio, con quello di Carl Schmitt nei cui scritti le espressioni antisemite affiorano solo nel 1933, diventando via via sempre più frequenti negli anni della guerra.

La presenza della parola Jude attesta l’esplicita identificazione del nemico nella guerra planetaria che la Germania combatte.
La strategia adottata da Schmitt, che doveva essere diffusa in quegli anni, viene seguita anche da Heidegger.

Se limitato è, nei Quaderni neri, il numero dei passi in cui parla di ebrei e ebraismo, più frequenti sono i riferimenti indiretti. 

Mediante il vocabolario teologico antigiudaico, le citazioni nietzscheane, le metafore biologiche, gli stereotipi gergali, i termini della lti, la lingua del Terzo Reich, opportunamente tradotti e rielaborati nel suo idioma filosofico, dove trovano nuova legittimità e inedita dignità, Heidegger rinvia agli ebrei evitando di menzionarli.

L’attacco diretto diventa superfluo. Grazie ai codici della retorica antisemita, insinuazioni, sottintesi, richiami, sebbene impliciti, sono facilmente decifrabili. 
Si costituisce così una semantica diretta a supportare la rete concettuale che accerchia, delimita, tenta di definire l’Ebreo. 

E mentre l’ebreo sfugge, e si sottrae, si pretende di coglierne metaforicamente l’essenza attraverso una serie di simboli, caratteri, prerogative che dovrebbero renderne la figura. 

Per indicare allora l’Ebreo figurale, è sufficiente richiamare una di quelle immagini. 
Così si può passare sotto silenzio il nemico, rinunciare sistematicamente a menzionarlo, senza per ciò fare a meno di tenerlo sotto tiro. 

Questa eliminazione ante litteram, quasi un esorcismo, evita il nome Jude e lascia al lettore il compito di colmare l’assenza.
I passi dei Quaderni neri in cui Heidegger affronta il tema dell’ebraismo sono dunque ben più numerosi delle quattordici occorrenze. 

Ne fanno parte  come: Verwüstung, Entrassung, Entwurzelung, Vorschub, Herdenwesen,
Vergemeinerung, Rechenfähigkeit, Beschneidung des Wissens, Gemeinschaft der Auserwählter, Unheil, desertificazione, derazzificazione, sradicamento, favoreggiamento, essenza gregaria, comunizzazione, abilità di calcolo, circoncisione del sapere, comunità degli eletti,
sciagura. 
E l’elenco potrebbe proseguire. 

La visione che Heidegger fornisce dell’Ebreo va dunque letta all’interno di questa più estesa rete speculativa.

La questione dell’essere e la questione ebraica. 
L’Ebreo e l’oblio dell’Essere 

Nella tradizione filosofica occidentale l’essere viene ancora pensato sul modello della semplice presenza. 

Sollevata già in Essere e tempo, questa critica va assumendo contorni più precisi negli anni successivi. 
Consapevole del peso esercitato da quel modo, ormai consolidato, di concepire l’essere, Heidegger è spinto a interrogarsi sul significato della metafisica.

Secondo il significato greco, la metafisica indica il movimento dell’esserci che va metà, oltre l’ente, dischiudendosi all’essere; se l’esserci comprende l’ente, è perché ogni volta lo trascende, guardandolo alla luce dell’essere, quel fondo da cui l’ente si staglia.

Ma nei lavori degli anni trenta la metafisica acquista un senso fortemente  negativo. 

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