domenica 13 febbraio 2022

MARTA IMPERIO: MENTE E CORPO NELLA PRATICA SPORTIVA




 GIACINTO-PLESCIA-HERMES-DI-PRASSITELE-MATITA-E-PASTELLI-CON-APPLICAZIONE-TEORIA-DELLE-CATASTROFI


MENTE E CORPO

Il movimento è del corpo o della mente? Siamo abituati a considerare il corpo e la mente come due entità strettamente legate. 

Chiedersi che cosa siano effettivamente mente e corpo o che cosa si intenda per psiche, sicuramente aiuterebbe a capire meglio come possano interagire fra loro. 


La mente è l’insieme delle strutture cerebrali e delle loro funzioni, nel linguaggio quotidiano è quello che si intende con il termine cervello. 

Il corpo non è soltanto un mero contenitore di organi, un insieme di apparati e poi di sistemi, ma è in senso psicologico ‘’il luogo delle sensazioni, delle emozioni, dei bisogni, dell’identità del bambino’’ (Tavella S., 2012). 

È il confine attraverso cui entriamo a contatto con la realtà esterna, l’IO che si rende conto del NON IO, il mezzo della comunicazione non verbale, è uno strumento per sentire che allo stesso tempo viene sentito.

Il corpo non è passivo, ma è in grado di porsi all’interno delle relazioni interpersonali in un certo modo oppure in un altro a seconda della dinamica delle stesse. 

Considerarlo un contenitore, significa implicitamente intendere che valga meno del contenuto che si porta dietro. 

Grazie alle sensazioni del corpo siamo in grado di elaborare delle percezioni e queste non sarebbero possibili senza gli organi di senso, prettamente corporei. 

  • La psiche nel pensiero classico e per la psicologia

Non sarebbe di certo una novità se dovessimo leggere un libro di neuroscienze, ma spesso ci dimentichiamo che la scienza conferma prepotentemente che senza il corpo non ci sarebbe lo sviluppo della mente e che senza lo sviluppo della mente non ci sarebbe quello del corpo. 

La parola psiche, secondo la sua etimologia greca, indica il soffio vitale e quindi l’anima così come originariamente veniva concepita. 

Quell’essenza che il corpo conteneva e che sopravviveva alla morte. 

Questo concetto coincide con l’idea platonica, ossia concepire l’anima come capacità di astrarre dal mondo sensibile o ancora come ‘’la più perfetta delle realtà che sono state generate’’ (Platone, 360 a.C.). 

In psicologia moderna, per psiche, si intende il complesso delle funzioni e dei processi che danno all’individuo esperienza di sé e del mondo. 

  • Democrito e Aristotele

Aristotele concepiva l’anima non solo come causa formale e finale, ma anche come causa motrice. 

Prima di lui, anche Democrito l’aveva definita come causa del movimento e quindi la immaginava già in moto di per sé. 

  • Kant
‘’Dov’è la sede di quest’anima umana nel mondo corporeo?  E io risponderei: questo corpo i cui cambiamenti sono i miei cambiamenti, questo corpo è il mio corpo e il suo luogo è al tempo stesso il mio luogo’’(Kant I., 2020). 

Chiaramente il concetto di anima risulta essere astratto rispetto a quello di mente. 

Veramente esiste una distinzione netta tra mente ed anima? 

Se potessimo rispondere con le parole di Kant, egli direbbe: ’ la mia anima è tutta nel corpo intero e tutta in ogni sua parte’’ (Kant I., 2020).

E’ consuetudine, ormai dagli ultimi decenni, considerare mente e corpo come entità collegate fra loro, tuttavia occorre rendersi conto che nel corso della storia non è stato sempre così. 

  • Damasio

Antonio Damasio, in qualità di neurologo, neuroscienziato e psicologo, nel 1995 scrive ‘’L’ errore di Cartesio’’ e, attraverso le sue parole, nega fermamente il dualismo mente-corpo. 

Egli accosta le due entità per evidenziarne la comunicazione. 

Il fatto che tale dualismo venga concepito come errore, significa che il distacco tra corpo e mente è stato ormai superato grazie a moderne considerazioni. 

Tali evidenze sono note nell’ambito psicologico così come in quello scientifico, basti pensare alla psicologia dello sport o alle neuroscienze. 

  • La Filosofia: Cartesio, la res cogitans e la res extensa

Cartesio, 1596- 1650, ha il merito di aver dato inizio ad una filosofia moderna poiché ha rifiutato l’impronta scolastica diffusa nei monasteri e nelle cattedrali a partire dall’ XI secolo ed ha scelto di indagare il mondo da una diversa prospettiva. 

Il filosofo suddivide la realtà in res cogitans e in res extensa, con la prima faceva riferimento alla realtà psichica (anche se intesa più come realtà spirituale, ma pur sempre attinente alla mente) e con la seconda a quella fisica. 

Ovviamente le due si distinguevano per diverse proprietà. Inestensione, libertà e consapevolezza da una parte e realtà fisica, che è estesa, limitata e inconsapevole dall’altra. 

Si tratta di un vero e proprio dualismo, ossia la presenza di una dualità di principi nella realtà. 

È opposto al monismo. 

Così venivano concepiti corpo e mente, due entità distinte, scollegate tra loro e perciò del tutto incapaci di comunicare. 

Per spiegare la realtà fisica dice Cartesio, occorre un modello meccanico, e di conseguenza si prende in considerazione la fisica meccanica. 

Esistono però facoltà, quali il linguaggio o il pensiero, che non possono essere spiegate tramite il medesimo modello e che vanno dunque distinte dalla res extensa

Cartesio si chiede come sia possibile che queste due realtà possano interagire nell’interezza dell’uomo, trova risposta nell’esistenza della ghiandola pineale, moderna epifisi, nonché ghiandola endocrina secernente melatonina. 

L’interesse per questo tema non è iniziato di certo con Cartesio. 

  • La Filosofia: Platone

Prima della filosofia moderna, si sono susseguite dottrine di una serie di filosofi sin dall’antica Grecia. 

Il primo a far riferimento a mente e corpo è stato Platone, nato tra il 428-425 a.C. nel mese del Targelione, cioè quello che oggi chiameremo maggio o giugno (Reale, 2017). 

Il suo vero nome, Aristocle, è stato sostituito dal nomignolo ‘’Platone’’. 

Secondo Diogene Laerzio, gli era stato attribuito dal suo insegnante di ginnastica per l’ampiezza della sua corporatura. ‘’Platos’’, in greco, significa estensione, ampiezza.

 Più che la mente egli menziona l’anima e questa viene concepita come immortale.

La sua essenza fa sì che possa risiedere nell’Iperuranio ovvero nel ‘’luogo sopra il cielo’’ che Platone stesso utilizza per intendere il mondo delle idee perfette. 

Platone tende a dare molta più importanza all’anima, tanto che si presume esista prima del corpo e che l’estensione di questo nel mondo terreno sembra essere quasi un peso. 

Non a caso la morte viene considerata come mezzo per la rottura del vincolo tra mente e corpo, così che l’anima possa compiere l’ascesi verso la vera conoscenza. 

Essere profondamente convinto dell’immortalità dell’anima, rendeva Platone meno impotente di fronte alla morte, egli la concepiva come meno spaventosa. 

L’anima, in quanto dotata di intelligenza era il fondamento unico dell’essenza dell’essere umano, ancora meglio, l’essenza stessa. In quest’ottica, il corporeo assume una valenza secondaria. 

È un qualcosa di terreno che viene solo dopo l’incorporeo. 

Oggi sappiamo che per poter garantire l’interezza dell’uomo, la mente non può prescindere dal corpo, tantomeno permettersi di considerarlo come secondario. 

Come mai Platone ha scisso queste due entità? 

Come mai ha considerato l’anima più importante del corpo? 

Sarebbe interessante chiedere ad uno sportivo attuale quali potrebbero essere le sue considerazioni a riguardo.

  • La filosofia e il corpo

La considerazione filosofica del mondo e l’interpretazione della realtà spingono erroneamente a pensare che la comprensione di ciò che ci circonda possa essere raggiunta solo per mezzo delle nostre facoltà intellettive. 

Chi dice che anche il corpo non possa fornire un altrettanto lodevole interpretazione della realtà? 

Se la filosofia, o meglio, filosofeggiare è compito della mente e l’esercizio fisico o attività fisica è compito del corpo, potrà mai esserci un punto d’incontro? 

In tal caso occorrerebbe fare delle adeguate distinzioni: la mente è l’insieme delle facoltà intellettive o l’insieme dei processi cognitivi di cui si ha consapevolezza, chiamarla psiche non sarebbe lo stesso poiché psiche è quella che Platone chiamava anima. 

Il corpo, o soma, comprende gli apparati e i sistemi, ma è anche un vero e proprio luogo in cui si abita e si sente la realtà esterna. 

  • L’attività fisica e l’esercizio fisico

Ancora, occorrerebbe distinguere l’attività fisica dall’esercizio fisico. 

Attività fisica è qualsiasi, purché implichi un dispendio energetico più alto dello stare fermi, una passeggiata all’aperto ad esempio. 

Esercizio è quello attentamente programmato e studiato in base alle esigenze specifiche del soggetto, se ne identificano le modalità, la frequenza e l’intensità oltre che il dispendio calorico che stavolta dev’essere considerevole rispetto allo stare fermi e non basta che sia poco di più. 

Ad esempio, fare esercizio fisico significa affidarsi ad un esperto in scienze motorie per raggiungere un fine specifico che non potrà essere raggiunto facendo solo attività fisica e quindi con delle passeggiate di cui non si conoscono frequenza, intensità e modalità di esecuzione. 

Se si svolge al fine di migliorare una specifica abilità o capacità diventa allenamento fisico. 

  • La filosofia dello sport 

Ritornando al punto d’incontro possibile, si potrebbe far riferimento ad una nuova disciplina: la filosofia dello sport. 

A sentirla così sembra una cosa nuova. 

Lo diventa se ci fermiamo alla mera definizione, ma non lo è se ciò che analizziamo è il concetto. 

Tranne qualche eccezione, quali il pedagogista Fabrizio Ravaglioli o il filosofo politico Martin Bertman, i quali hanno pubblicato un libro ciascuno, ma entrambi con il medesimo titolo ‘’Filosofia dello Sport’’, questa disciplina sembra incutere paura generale. 

La filosofia dello sport non ha avuto occasione di diffondersi tra i docenti, i ricercatori o gli studiosi di vario genere. 

I filosofi italiani non hanno mai considerato lo sport come argomento della loro filosofia. 

L’etimologia della parola sport deriva dal latino ‘’deportare’’ ossia uscire fuori porta, uscire dalle mura per dedicarsi alle attività sportive. 

Dal 1532 in poi, pronunciare ‘’sport’’, significava dire divertimento. 

Questa accezione deriva dal francese antico, infatti in Francia si utilizzava la parola ‘’desport’’ da cui deriva anche il temine italiano diporto, ossia divertimento, svago, ricreazione. 

  • Le discipline sportive

Di certo queste poche definizioni risultano riduttive se ci si ferma a pensare alla domanda: che cos’è lo sport? 

Sarebbe limitante fare un elenco delle diverse discipline sportive in voga oggi: lo sport è calcio, lo sport è pallacanestro, lo sport è pallavolo e via dicendo. 

Sarebbe interessante indagare e scoprire i significati che possono essere attribuiti allo sport. 

Culturalmente lo sport sta assumendo una valenza che lo rende qualcosa di più di una semplice pratica o esperienza corporea. Ha un valore ludico, ha un valore cognitivo, morale fino alla più alta delle sue qualità, quella preventiva e di supporto alle cure mediche per alcune patologie. 

  • Cenni storici sulla pratica sportiva

Storicamente, nel secondo dopoguerra, l’ossessione per la pratica e per la perfezione degli sportivi andava di pari passo con l’ideologia fascista, forse è per questo che ancora oggi si trovano gli strascichi in alcuni pensatori italiani che hanno via via marginalizzato i temi legati alla pratica. 

Non si può dire lo stesso della Germania che è stata la prima negli anni Sessanta a dedicarsi alla scienza dello sport nel cui studio rientrava anche la filosofia dello sport.

Non a caso, in Italia, i corsi universitari di Scienze Motorie sono stati introdotti solo nel 1998, motivo per il quale è stato l’ultimo paese ad aver preso coscienza dell’importanza dello sport e del suo studio prettamente scientifico.

Le facoltà di Scienze Motorie altro non sono che l’evoluzione di quelli che venivano chiamati Istituti Superiori di Educazione Fisica (ISEF). 

All’interno dei moderni curricula universitari, rientrano diverse discipline umanistiche come psicologia dell’ handicap o psicologia dell’età evolutiva. 

Alla parola sport troviamo accostate le parole psicologia e pedagogia. 

  • Lo sport nell'antichità

Come già accennato prima, la filosofia e lo sport hanno un antico legame. 

Se potessimo tornare nell’antica Grecia, avremmo occasione di testimoniare come grandi filosofi tra i quali Aristotele, Pitagora, Senofane, 

Socrate e lo stesso Platone discutevano di atletica e ginnastica esaltandone la valenza educativa, l’intrepidezza in ambito politico e l’importanza nello sviluppo della cittadinanza. 

Lo sport praticato nell’antica Roma o in Grecia aveva tanto in comune con le precedenti civiltà. 

Quella mesopotamica, egizia e quella minoica, esaltavano il legame tra atletismo e virtù umana. 

Una buona condizione atletica era chiaro segno di avvicinamento alle divinità. 

Tuttavia, tale forma di atletismo non era vero e proprio sport, questo perché veniva utilizzato solamente per rafforzare ed affermare condizioni sociali già abbondantemente prestabilite. 

Venivano sottolineate le credenze o le gerarchie. 

  • Lo sport nella contemporaneità: le differenze con l'antichità

Lo sport come lo intendiamo oggi invece, così come la filosofia, serve a mettere in continua discussione le credenze esistenti e per non dare mai niente per scontato. 

Se è vero che in filosofia nulla è come sembra, questo concetto vale anche nei diversi incontri sportivi. 

Sarà capitato a tutti di assistere ad un incontro sportivo paragonabile alla sfida di Davide contro Golia e vedere Davide che vince nonostante tutti i pronostici a suo sfavore. 

Per dirlo con le parole del fisico teorico Carlo Rovelli: ‘’la realtà non è come ci appare’’ (Rovelli, 2011). 

L’abilità di un atleta, così come di un filosofo, sta nel diffidare dei pronostici e vedere oltre le circostanze iniziali. 

Diversi scrittori hanno menzionato imprese sportive dei grandi protagonisti della storia antica. 

Omero, nell’Iliade, menziona il re Agamennone e la sua incontrastata vittoria al giavellotto con tanto di assegnazione del premio. 

L’obiettivo della gara era quello di palesare le proprie virtù personali o il proprio valore, inteso come ‘’areté’’. 

Omero utilizza il termine ‘’aristéia’’, significa ‘’essere sempre il migliore ed eccellere sugli altri’’(Iliade,6,208). 

‘’Lo sport è un’occasione di confronto con i grandi temi dell’uomo, una vera e propria palestra di riflessione filosofica’’, (Isidori e Reid, 2011). 

L’obiettivo è quello di scrollarsi di dosso l’idea che praticare sport riguardi solamente la prestazione fisica, in realtà riguarda pienamente anche l’aspetto mentale e sociale e, nell’antica Grecia, addirittura religioso.

Non è un caso se la prima gara di corsa, disputatasi ad Olimpia, sia servita a decretare il più veloce e dunque il più meritevole di accendere la fiamma olimpica sacrificale sull’altare di Dio. 

Questo testimonia con grande chiarezza non tanto il valore religioso, ma piuttosto quello sociale e la considerazione dei molti sul valore attribuito al singolo e alla prestazione fisica.

In tal senso, sport e filosofia sembrano molto più che collegati. Appaiono come inscindibili. 

La filosofia ricerca la verità e lo sport, in un certo senso, impone un rigore. 

Se raggiunto correttamente, un risultato sportivo altro non può essere che vero. 

I risultati raggiunti scorrettamente così come le violazioni delle regole, venivano considerati dei veri e propri insulti contro le divinità. 

L’imbroglio pertanto non veniva perdonato facilmente, al contrario veniva condannato.

Questo viene testimoniato dall’esistenza della linea di Zeus: una statua costruita interamente con i soldi delle multe pagate dagli atleti accusati di aver imbrogliato. 

L’equità possedeva un preciso valore e serviva a preservare l’integrità dei risultati sportivi. 

Questa concezione ha posto le fondamenta sull’antico concetto greco di isomonìa che si riflette con l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. 

  • Il doping e la droga e la dismorfofobia

Il rigore a cui si fa riferimento, forse oggi è venuto meno a causa del Doping. 

Perché un atleta dovrebbe doparsi? 

Perché chi si droga non si dopa e viceversa? 

Per esplicarlo con una prospettiva psicologica, oggi sappiamo che chi fa uso di droghe lo fa per cercare una fuga dalla propria realtà che ai propri occhi non è mai abbastanza. 

Chi si dopa invece, tende a cercare un nuovo corpo da plasmare al fine da poter raggiungere la figura del corpo immaginato. 

Il corpo immaginato è quello che vince, è il corpo che viene adulato, è il corpo che raggiunge medaglie e riconoscimenti. 

Si può evidenziare punto d’incontro tra mente e corpo, infatti si tratta del corpo reale che tende verso il corpo immaginato e quindi verso un concetto ideale prettamente mentale. 

Questo processo inconscio sta alla base di diversi disturbi tra i quali la dismorfofobia. 

Questo disturbo significa letteralmente ‘’paura della deformia’’ ossia un timore ossessivo di avere particolari deformità o anomalie somatiche per una propria convinzione mentale. 

A conferma di tutto ciò,  purtroppo, i diversi scandali nel mondo dello sport legati all’assunzione illegale di steroidi anabolizzanti o di eritropoietina (EPO). 

Anche se droga e doping hanno in comune diversi aspetti, incomprensibilmente la figura del campione dopato viene tollerata maggiormente, forse perché nell’ideale sociale egli persegue obiettivi quali migliorare la performance sportiva, maggiore autoefficacia e successo. 

L’ideale sociale della persona drogata assume una sfumatura molto più dispregiativa. 

Ad esempio, pensare ad un coetaneo che viene definito eroinomane, sottende tutta una serie di definizioni poco accettabili. 

Come se, chi si dopa, abbia commesso infrazioni di secondo livello rispetto a chi di droga. 

Qui si innesca un problema prettamente etico, un atleta che si dopa risulta essere privo di una morale poiché non solo viola una legge, ma viola un concetto fondamentale nello sport: vincere attraverso le proprie abilità che vengono migliorate solamente con sacrifici, passione ed allenamento. 

Considerando la prospettiva dalla visuale di Immanuel Kant, il fatto stesso di non adempiere ad un dovere che rimanda ad una regola può essere considerato di per sé moralmente scorretto. 

A risentirne è anche il risultato di una gara, in quanto alterato dall’assunzione di sostanze. 

Ne consegue la mancanza di equità tra gli sfidanti, è come se ognuno di noi raggiungesse un merito che non gli apparterebbe. 

Probabilmente la problematica doping è strettamente legata al denaro, non di rado c’è chi è disposto a rinunciare alla propria salute pur di impossessarsene. 

  • Una proposta: inserimento di un corso di filosofia nei curricula di Scienze Motorie

In una prospettiva più utopistica, probabilmente l’atleta dopato potrebbe essere rieducato piuttosto che condannato solamente, magari potrebbe leggere le considerazioni dei grandi filosofi in merito. 

Per questo si potrebbe ritenere opportuno inserire un corso di filosofia dello sport tra i moderni programmi universitari di Scienze Motorie, in modo tale che i futuri atleti e/o allenatori abbiano opportunità di conoscere il vero valore sportivo, politico, sociale, morale, religioso e filosofico della fiamma olimpica. 

Avere occasione di conoscere non solo l’Iperuranio platonico delle idee perfette o la sfera celeste aristotelica, ma anche come questi filosofi si recavano nei ginnasi o nelle palestre per discutere di filosofia, di sport e per praticare la vera, pulita pratica sportiva, risulterebbe senz’altro una risorsa in più dalla quale attingere. 

Spesso accade che la considerazione di un tossicodipendente varia al variare della sostanza assunta, tale concetto può essere ben riportato anche all’uso di doping e in riferimento a quale sportivo viene scoperto a farne uso. 

  • Socrate , Platone e Kant

Forse quando Platone scriveva che ‘’l’esercizio della ginnastica serve più alla mente o all’anima (psyché) che al corpo’’ (Platone, 360 a.C.) non aveva torto. 

L’esigenza di fare uso di doping nasce primariamente da uno squilibrio a livello mentale che fa percepire le prestazioni non sufficienti e insoddisfacenti. 

Il benessere generato dallo sport ha un valore da non sottovalutare sull’equilibrio mentale di un atleta. 

Lo stesso Socrate era solito recarsi nelle palestre ed offrire un vero e proprio servizio alla città e al Dio Apollo. 

Egli tentava di tramutare l’amore per la vittoria e per la prestazione sportiva in amore per la conoscenza. 

ll legame tra mente e corpo lo ritroviamo anche in filosofi più recenti, Kant consapevolmente precisa la sua posizione e ripete che la sua anima gli riempie tutto il corpo. 

Non ci deve affatto stupire, anche i più grandi pensatori della storia amavano praticare sport, andare in palestra, duellare, condurre una vita attiva. 

Di certo non si può criticare loro il fatto di non aver condotto una vita altrettanto attiva mentalmente. 

Il contributo della filosofia allo sport ha avuto un valore educativo, la stessa parola ‘’accademico’’ deriva da uno dei luoghi preferiti di Socrate, l’Accademia. 

Era il luogo della scuola di Platone e quest’ultimo era fermamente convinto del fatto che gli esercizi quali la corsa o la lotta avessero una rilevanza dal punto di vista educativo e che avessero un qualche legame con il dibattito filosofico. 

L’esercizio della mente legato all’esercizio del corpo all’interno di una stessa persona. 

Mens sana in corpore sano per dirlo con una locuzione latina di Giovenale. 

Kant suggerirebbe ‘’agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua volontà a legge universale’’ (Kant I., 1765). 

Tradurre le parole di Kant significherebbe desiderare che tutti, universalmente, assumano la stessa sostanza dopante e questo sarebbe non solo sconsiderato, ma anche inutile dato che il vantaggio tanto ambito sui risultati si annullerebbe. 

Forse, se un atleta conoscesse questo principio ci penserebbe due volte prima di assumere una sostanza dopante. 

Se potesse fare proprio il significato educativo che sta alla base, potrebbe capire che la sua azione risulterebbe sconsiderata. 

  • La condizione sociale della donna nell'antichità e la pratica sportiva

Esistono dei fili conduttori  anche nello sport moderno e riguardano l’esclusione delle donne dai ginnasi e di conseguenza dalla pratica dell’attività fisica in generale. 

Questa considerazione parte dal fatto che nella palestra di Platone si riscontrava una situazione non tradizionale: la presenza di donne. Il fatto di considerarla non tradizionale la dice lunga. 

Se leggessimo ‘’La Repubblica’’ o ‘’Le Leggi’’, scopriremmo che Platone parla di donne e ragazze che prendono parte ad allenamenti e a gare. 

Forse questo deriva dalla considerazione che il filosofo aveva dell’anima, ossia un’essenza asessuata. 

Questo probabilmente poteva averlo spinto a non ricadere sulla considerazione della donna come incapace nella pratica sportiva in quanto essere femminile. 

Diogene Laerzio nella sua ‘’Vite dei massimi filosofi’’ menziona il nome delle due studentesse di Platone all’Accademia: Axiothea d Philius e Lasthenia di Mantinea. 

L’esclusione della donna, da parte di Aristotele invece, non viene richiesta in modo esplicito. 

Sembra esserlo considerando l’estromissione della donna persino dalla vita politica e sociale quindi di conseguenza dalla vita civile.

  • L'attività sportiva ai nostri giorni e la condizione femminile

Ponendo uno sguardo sul mondo sportivo di oggi, si palesa assurdo non considerare Cristiana Girelli una professionista mentre Andrea Pirlo sì. 

Attualmente nel panorama italiano solamente cinque sport sono considerati professionisticia e sono: calcio, pallacanestro, ciclismo, golf e sport equestri. 

Solo il 3% degli sport esistenti e, oltretutto, unicamente dedicati al mondo maschile. 

Pugilato e MotoGP sono stati solamente recepiti, ma non disciplinati dal CONI. 

Si potrebbero citare anche altri sport, tra i quali il nuoto, ma in tal caso Federica Pellegrini così come Filippo Magnini sono considerati entrambi non professionisti. 

Nell’ordinamento sportivo, si fa riferimento alla Legge 91/1981 e considera:’’ (…) sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica.’’ 

Il fatto di essere disciplinato dal CONI rende il professionismo formale e non sostanziale, in quest’ultimo caso, come accade nel resto dell’UE basterebbe solamente ricevere un compenso economico. 

Al contrario di quanto possa sembrare, questa parentesi risulta essere quanto più attinente possibile considerando che la mentalità di uno sportivo professionista è di certo più motivata di un altro che, a parità di sacrifici e di allenamenti, si vede ripagato solamente con un rimborso spese anziché con uno stipendio. 

Nel caso del calcio, cosa ci sarebbe di diverso se non la differenza di sesso? 

Tralasciando eventuali differenze biologiche, muscolari e fisiologiche (a cui i più temibili maschilisti potrebbero appellarsi) questo considerare la donna sportiva come meno potente, meno prestante o meno adatta dell’uomo sportivo è un’idea diffusa ancora oggi.

Fortunatamente sono stati fatti dei passi importanti, meglio tardi che mai. 

Sono evidenti nel calcio femminile dove molte delle società più famose nel maschile, quali la Juventus o la Fiorentina, si sono ben attrezzate per poter garantire un futuro calcistico anche alle donne. 

Partendo dalla categoria pulcini fino a quelle adulte. 

Disputano un vero e proprio campionato, beneficiano delle stesse strutture un tempo non lontano messe a disposizione solo al sesso maschile e beneficiano anche delle figure professioniste che si prendono cura di loro sia dal punto di vista tecnico-sportivo sia da quello alimentare, medico e clinico. 

Non è un caso, che garantendo loro pari opportunità da sempre riservate ai soli colleghi uomini, anche i risultati in termini di prestazione fisica e di obiettivi raggiunti siano notevolmente migliorati. 

Sarà forse il caso di capire che, una donna che svolge un lavoro durante il resto della giornata e poi alle ore venti di sera si reca all’allenamento per beneficiare solamente di un rimborso spese, non goda affatto delle stesse opportunità di un uomo considerato professionista che viene pagato per praticare sport giornalmente. 

È ovvio che i risultati conseguiti non possano essere gli stessi, questo non rientra nelle differenze morfologiche o in quelle di capacità sportiva, ma si tratta di condizioni sfavorevoli che limitano in partenza la carriera sportiva di una donna. 

Fortunatamente non in tutti gli sport si nota la medesima situazione, altre donne hanno occasione di beneficiare fin da subito delle stesse strutture messe a disposizione agli uomini, ma alla fine dei conti piangono il fatto di non considerate delle professioniste. 

In altri stati, quali l’America, il calcio femminile è persino più importante di quello maschile. 

Chiudendo questa parentesi, definire lo sport in sé non risulta così semplice. 

Come intuibile, esistono diverse prospettive che vale la pena indagare. 

  • I valori culturali e sociali dello sport 

Il significato di sport così come lo viviamo nel presente è ancora legato all’idea di gioco, alla pratica sociale o all’arte, ma anche all’idea di salute, alla medicina, al benessere. 

In una prospettiva più generale lo sport è fortemente legato anche alla Scienza.

Lo sport non deve essere inteso solamente come una competizione o una specifica attività praticata secondo certi canoni e seguendo specifiche regole. 

Si pensi ad una bambina o ad un bambino che voglia avvicinarsi al mondo sportivo, esistono tante realtà tramite cui potrebbe farlo. 

Quando l’attività sportiva include la sfera ludica tende ad essere più apprezzata dai bambini. 

Fare sport attraverso il gioco, fa divertire ed aiuta ad esprimere dei lati della personalità che in altri contesti non verrebbero fuori. 

Questo perché il bambino si sente libero di prendere parte di un contesto collettivo, sentirsi accolto da un gruppo ed imparare. 

Anche nel gioco esistono delle regole da seguire, ed è giusto che sia così, ma viene meno la competizione che a volte potrebbe mascherare la valenza educativa del gioco soprattutto durante l’ età evolutiva. 

In tal senso giocare significa dare la possibilità di liberare la propria fantasia, accorgersi di avere dei bisogni comuni con gli altri, condividere esperienze da poter raccontare e sentirsi migliori sia fisicamente che mentalmente. 

Anche in tal caso vale il ‘’divertendosi s’impara meglio e più velocemente’’, un concetto mentalmente appreso diventa più solido se accompagnato da un’azione pratica: ’’i giochi funzionali e simbolici danno occasione al fanciullo di prendere un gran numero di iniziative motorie (…)’’ , ( Le Boulch, 2013). 

Questa non è di certo una novità, le sensazioni che si sentono con il corpo vengono in un secondo momento percepite anche con la mente e registrate come positive o negative, fisiologicamente, in aree specifiche dell’encefalo. 

A volte sarebbe il caso di giocare di più ed entrare in competizione meno. 

Da non dimenticare il valore educativo della pratica sportiva e quello intrinseco nella crescita interiore del bambino, nell’adulto e perché no, anche nell’anziano. 

Rendersi conto di essere capaci di fare qualcosa e di poterne trarre beneficio. Infatti, per l’anziano si potrebbe considerare la pratica sportiva all’aperto per contrastare i cambiamenti fisiologici e mentali dell’invecchiamento. 

Di contro la prospettiva generale, dal punto di vista sociale, dipinge la figura dell’anziano come incapace di fare esercizio fisico, disoccupato e senza energia (Federici et al., 2007). 

Durante l’età evolutiva, invece, si dovrebbe porre particolarmente attenzione all’apprendimento degli schemi motori di base, dal gattonare fino all’arrampicarsi, in quanto colonne portanti di qualsiasi altro schema motorio venga appreso con il passare degli anni. 

Più questi risultano consolidati, più sarà facile apprenderne di nuovi. 

Quella che viene chiamata ‘’l’età d’oro della motricità’’ (Federici et al., 2008) dagli otto agli undici anni, segna una svolta nelle capacità di apprendimento del bambino. 

Da notare la coincidenza con l’inizio del secondo anno di scuola primaria, momento di grande cambiamento e di crescita non solo fisica, ma anche mentale e soprattutto espressiva: ’’ a quattro anni il fanciullo diviene già cosciente dei suoi atteggiamenti ed entra nell’età della commedia in cui moltiplica le moine, i sorrisi, i bronci, attraverso i quali mira a rendersi interessante (…); l’ armonia ed il ritmo del movimento raggiungono una certa perfezione tra i quattro ed i cinque anni, nell’età detta di grazia (Le Boulch, 2013). 

Non è una novità che specifici esercizi aiutino nell’apprendimento della lettura e della scrittura, ‘’il corpo è il primo mezzo con cui l’individuo sperimenta l’ambiente, è il primo canale di comunicazione fra lui e gli altri’’ (Federici et al., 2008). 

Ad esempio, imparare a leggere significa riuscire ad elaborare un’ informazione ortografica, sequenza di nozioni alfabetiche, per poi riprodurla fonologicamente e comprenderne il significato. 

Questo concetto diventa essenziale se applicato alla dislessia che oggi è molto diffusa, nella popolazione generale i dislessici rappresentano tra il 5 ed il 17 % (Cottini et al., 2008). 

Esercizi sull’orientamento spazio-temporale o sulla ritmica potrebbero essere notevolmente di aiuto. 

Concepire, a livello corporeo, dove si trovino e cosa siano la destra e la sinistra oppure l’alto o il basso potrebbe sicuramente migliorare l’orientarsi del bimbo anche sul foglio di carta e di conseguenza concretizzare l’immagine corporea di sé concepita nello spazio e nel tempo. 

‘’La costruzione dello schema corporeo è quindi basilare per la padronanza dello spazio orientato e, in particolare, di quello grafico. Un ruolo importante è rivestito anche dalla lateralizzazione, definita come il predominio motorio di un emicorpo sull’altro’’ (Federici et al., 2008).

In senso sociale, fare sport significa partecipare ad esperienze collettivamente condivise, imparare dai propri e dagli altrui errori, fare qualcosa di utile e sentirsi parte attiva negli obiettivi raggiunti.

 ‘’Per realizzare i beni interni dello sport sono necessarie virtù sociali’’ (Isidori e Leid, 2011). 

Queste virtù sono onestà, giustizia e coraggio. 

La figura dell’atleta professionista mira al possederle tutte, egli prova piacere fisico e mentale nello svolgere un esercizio fisico che possa raggiungere un fine. 

Questo fine è il miglioramento della prestazione unito ai benefici che comporta. 

Aristotele concepiva il piacere come sensazione conseguente allo svolgere un’attività utile sia per se stessi sia per gli altri, e quindi per la società. 

Il movimento è anche socializzazione, è collaborazione. 

Si pensi ad uno sport di squadra, nel bambino favorisce un graduale passaggio dall’egocentrismo al sociocentrismo. 

  • Lo sport e le diversità

Ancora, in senso socioculturale, lo sport aiuta a concepire come abili nel fare qualcosa anche coloro che nel linguaggio di tutti i giorni vengono considerati ‘’handicappati’’, aiutandoci a comprendere che sarebbe meglio definire quest’ultimi come dis-abili permanenti. 

Ognuno di noi è stato dis-abile (non abile a), anche se momentaneamente, in qualcosa. 

Tuttavia, tutti siamo abili almeno in un’attività e lo sport per disabili oggi è diffuso, è presente. 

Esistono diverse classificazioni in cui vengono inserite le varie disabilità, grazie a queste tutti possiamo fare sport. Indistintamente (Biancalana, 2008). 

Nel panorama delle disabilità, non rientrano solamente quelle fisiche. 

Siamo abituati a far riferimento a paraplegici, tetraplegici, ciechi o sordomuti e via dicendo. 

Essere non abili a fare qualcosa riguarda anche la sfera mentale poiché gli scompensi mentali inevitabilmente si riflettono sul corpo. 

In psicologia si parla spesso di somatizzazione, un chiaro esempio di come una situazione non salutare nella mente si rifletta con chiari sintomi sul corpo. 

Può accadere anche l’esatto contrario, un corpo che viene disprezzato, che ha delle disfunzioni potrebbe creare dei disturbi mentali. 

Somatizzare significa ‘’avere la tendenza transitoria opersistente nel provare a comunicare la sofferenza psicologica sottoforma di sintomi somatici e cercare aiuto per questi’’. 

Questa è la definizione di Zbigniew J. Lipowski nel 1988. 

I principali disturbi legati alla somatizzazione possono essere disturbi gastrointestinali, cardiovascolari, muscolo-scheletrici, respiratori, sessuali e dolori di varia natura come la cefalea. 

Non esiste un processo somatico che non sia collegato ad una attività psicologica. 

Persino le emozioni vengono sperimentate come processi somatici. 

In somatopsichica il corpo viene concepito come un cervello diffuso. 

Ad esempio, il neurotrasmettitore melanotropo, Alfa-MSH, viene prodotto dall’ipotalamo ed interagisce con i suoi recettori MCR1 anche sui melanociti, cellule della pelle che contribuiscono alla pigmentazione.I melanociti risultano essere delle cellule molto simili ai neuroni, sono persino dotati di ramificazioni somiglianti ai dendriti.

  • Lo sport e l'arte

Altra prospettiva implicherebbe considerare lo sport come una vera e propria forma d’arte. 

Occorre, forse, dare prima una definizione di arte. Principalmente verrebbe da dire che si tratti di una forma di espressione, può essere fatta singolarmente o collettivamente. 

Possiede una certa forma estetica. 

Siamo abituati a parlare di pittura, di scultura, di scrittura. 

Siamo poco abituati invece ad avvicinare l’attività fisica alla parola arte. 

Ci sono diversi sport assolutamente artistici, si pensi alla ginnastica artistica, a quella ritmica o al nuoto sincronizzato, si pensi a specifici movimenti fatti durante una gara. 

Movimenti che sfiorano la perfezione o che a volte arrivano a quella che in gergo sportivo sarebbe una perfetta esecuzione. 

Un rovescio di Nadal, una bracciata della Pellegrini, una stoccata di Montano, un canestro di Bryant, una schiacciata della Piccinini e l’elenco sarebbe lungo. 

Tutti questi sportivi, sognano una cosa paragonabile al 10 perfetto raggiunto da Nadia Comaneci alle Olimpiadi del 1976. 

Tuttavia, possiamo fare una differenza tra sport artistici e sport che lo sono un po' meno. 

Nel nuoto sincronizzato, gran parte del punteggio raggiunto si ottiene soprattutto dalla capacità artistica della coreografia proposta. 

È una vera e propria danza sotto e sull’acqua. 

Nel basket, un canestro all’ultimo secondo, potrebbe essere concepito come una forma d’arte da un’ipotetica giuria popolare, ma di certo poco importa ai fini del risultato se un canestro è bello o brutto. 

Conta il punteggio finale, basta che si vinca di un punto sopra gli avversari. 

Le ginnaste invece non badano solo al punteggio numerico, poiché questo si avvale intrinsecamente del valore artistico della performance proposta alla giuria. 

Kant ha sempre considerato l’arte  come mezzo  per  esprimere le facoltà cognitive più  elevate. 

Sicuramente in questa prospettiva kantiana può essere inserita la pratica sportiva. 

Che sia vero che la prestazione atletica non risieda solamente nel corpo, ma anche nella mente dell’atleta? 

Assolutamente sì. 

‘’Io sono dove sento: sono allo stesso modo nella punta delle dita come nella testa; sono la stessa persona che soffre ai calcagni e in cui il cuore batte per una passione’’ (Kant I., 2013).

Sport e scienza risultano dunque essere due mondi destinati ad incontrarsi. 

  • Prestazioni, parametri sportivi e le riabilitazioni

Fare un qualsiasi sport ad alto livello, oggi, significa fare riferimento ad una serie di parametri che vengono costantemente misurati e presi in considerazione per poter migliorare le prestazioni dell’atleta. 

Velocità, precisione, ampiezza, angolazione, ne sono un esempio. 

Un atleta non abbastanza veloce, uno non abbastanza preciso, si allontana dal risultato che gli consentirebbe di raggiungere la vittoria. 

Così, oltre che alla semplice osservazione empirica dell’atleta, assistiamo a continui monitoraggi che si avvalgono di strumenti all’avanguardia quali giroscopi o accelerometri in grado di fornire precisi numeri grazie a Software installati sul PC dei preparatori atletici. 

Altra tecnica molto diffusa è quella del Biofeedback che letteralmente significa ‘’retroazione biologica’’. 

Consiste nel presentare al soggetto, in tempo reale, delle informazioni specifiche relative a funzioni fisiologiche, psicologiche, biologiche e motorie durante lo svolgimento di un atto motorio più o meno complesso. 

E’ particolarmente utile durante le riabilitazioni e le rieducazioni motorie e neurologiche, ma anche per terapie del dolore, problematiche psicosomatiche e per prevenire o ridurre lo stress. 

Il soggetto deve solamente indossare dei sensori, posizionati in punti specifici del corpo, che verranno poi monitorati tramite un software. 

Sullo schermo appariranno i relativi punteggi, che possono essere indicati anche sottoforma di colori, luci o suoni. 

Parlare di sport e scienza non significa solo questo però. 

Si possono raggiungere altri scopi oltre a quelli inerenti al professionismo e ai risultati.

L’azione preventiva dell’esercizio fisico e quella di implementazione a diverse cure mediche è, oggi più che mai, una delle armi più potenti al fine di combattere l’insorgenza delle patologie cronico-degenerative.

Per poter parlare di tali patologie, diventa necessario comprendere che per tali s’intendono tutte quelle patologie ad insorgenza subdola, che tendono a perdurare nel tempo e che comportano un pervertimento delle funzioni fisiche e/o mentali. 

Considerando patologie come depressione, ipertensione o ancora considerando ictus o incidenti che causano danni al sistema nervoso centrale e/o periferico, l’esercizio fisico  deve essere assolutamente presente durante l’intero periodo riabilitativo e ancora meglio in quello rieducativo.

Seguire una cura medica è assolutamente necessario, ma nel recuperare pienamente la condizione fisica e la salute non è sufficiente. 

Quando si ha a che fare con patologie come il diabete o con episodi ischemici, infartuali, è doveroso impegnarsi al fine di cambiare lo stile di vita. 

Questo andrebbe orientato verso la pratica dell’esercizio fisico e verso l’inizio di una dieta intesa come corretta alimentazione da mantenere per il resto della vita e non solamente per raggiungere il dimagrimento per poi essere abbandonata. 

Tale cambiamento richiede un notevole sforzo mentale, prima ancora che fisico. 

Una patologia purtroppo sempre più diffusa è la depressione. 

Per un soggetto depresso, alzarsi dal letto al fine di soddisfare i propri bisogni primari, implica un elevato dispendio di energia. 

Persino il nutrirsi diventa troppo impegnativo. 

La depressione è inserita tra i disturbi dell’umore e presenta alterazione del sonno, mancanza di appetito, faticabilità e diminuzione di energia, perdita dell’interesse per numerose attività compresa quella sessuale, sintomi gastrointestinali, bocca secca, nausea, costipazione, dolori diffusi, alterazioni neuroendocrine. 

In particolare, la depressione maggiore è caratterizzata principalmente da profonda tristezza, calo della spinta vitale, perdita di interesse verso le normali attività, pensieri negativi e pessimistici. 

La depressione è stata descritta per la prima volta nel 1980 nel DSM-III (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali). Inizialmente si credeva fosse soltanto un disturbo dell’umore e che non fosse necessario l’utilizzo di farmaci. 

Questa concezione cambiò radicalmente quando nel 1950 e poi nel 1960, ci si accorse che farmaci come la reserpina o l’isoniazide interagivano con il tono dell’umore creando effetti collaterali. 

La reserpina veniva comunemente utilizzata nel sud est asiatico come antidoto contro il veleno di serpente ed induceva depressione. 

L’isoniazide veniva invece utilizzata come cura contro la TBC e migliorava notevolmente l’umore dei pazienti (Hillhousee e Porter, 2015). 

I suddetti farmaci interagiscono con il metabolismo dei neurotrasmettitori aminergici (adrenalina, noradrenalina e serotonina) a livello del sistema nervoso centrale (SNC). 

Le sinapsi che utilizzano questi neurotrasmettitori hanno un loro specifico funzionamento che viene alterato da questi farmaci.

La reserpina diminuisce la disponibilità del neurotrasmettitore nelle vescicole sinaptiche causando depressione. 

Al contrario l’isoneazide ne aumenta la disponibilità, favorendo un tono dell’umore positivo grazie all’inibizione esercitata sull’enzima MAO (monoamminoossidasi) che normalmente ha la funzione di lisi del neurotrasmettitore con lo scopo di disattivarlo. 

Ovviamente, oggi, si utilizzano terapie mediche all’avanguardia per curare la depressione. 

Si tratta degli antiricaptatori dei neurotrasmettitori, SSRIs, in grado di migliorare la risposta serotoninergica. 

Sostanzialmente la terapia blocca il recupero dei neurotrasmettitori lasciandoli interagire durante le sinapsi per più tempo. 

I centri nervosi più coinvolti sono l’Ipotalamo che controlla fame, sonno e la libido, l’Amigdala deputata al controllo dell’ansia e della gratificazione, l’Ippocampo che controlla la memoria e l’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene. 

Tali centri risultano essere particolarmente attivi durante la gestione dello stress, non è un caso che periodi prolungati fortemente stressanti svolgano un ruolo cruciale nell’insorgenza della depressione. 

L’Amigdala di un paziente depresso risulta alterata nella sua attività, mentre quando il soggetto è fortemente stressato tende ad essere iperattiva. 

Questa iperattività si riflette sull’Ipotalamo, il quale inizia a produrre l’ormone di rilascio della corticotropina (CRH), l’ormone agisce a sua volta sull’Ipofisi la quale inizia a produrre la corticotropina (ACTH) ed infine quest’ultima agisce sulla corticale surrenale stimolandola a produrre il cortisolo, ormone dello stress per eccellenza. 

L’ipercortisolemia agisce poi sull’Ippocampo, innescando una morte neuronale diffusa. 

L’Ippocampo agisce nuovamente sull’Ipotalamo tramite un circuito a retroazione positiva. 

Per poter rimediare a tutto ciò, è necessaria una cura medica ed una cura psicologica, ma è altrettanto valida la prescrizione di esercizio fisico. 

E’ ormai noto che il movimento migliori la risposta e la disponibilità dei neurotrasmettitori, in particolare dell’adrenalina e della serotonina. 

L‘esercizio risulta essere una cura naturale in quanto, di per sé, migliora il tono dell’umore. 

Esistono delle evidenze: negli anni 2000, è stato fatto uno studio su 156 pazienti con diagnosi di depressione (Babyak et al., 2000).

Una volta divisi in tre gruppi, sono stati proposti loro tre percorsi differenti: il primo gruppo assumeva i farmaci SSRIs, il secondo gruppo svolgeva un protocollo di esercizio fisico ed il terzo gruppo assumeva i farmaci SSRIs e svolgeva lo stesso protocollo di esercizio fisico.

Dopo dieci mesi dall’esperimento, nei due gruppi in cui è stato proposto l’esercizio fisico, la percentuale di depressione nei soggetti è scesa del 50%. 

Ciò evidenzia un collegamento diretto tra la pratica dell’esercizio e l’ipotesi monoaminergica sopra citata, tale collegamento diventa evidente una volta compreso che l’esercizio fisico aumenta la disponibilità dei neurotrasmettitori, in particolar modo della serotonina. 

Non è un caso se si usa spesso chiamare questo neurotrasmettitore ‘’ormone del buon umore’’. 

La maggior parte dei neurotrasmettitori assolvono anche la funzione di ormone agendo a livello generale e periferico. 

Sia con i farmaci sia con la pratica dell’esercizio fisico, la serotonina aumenta rapidamente e poi diminuisce altrettanto velocemente. 

Gli effetti sono pertanto immediati, ma il miglioramento effettivo sul paziente depresso è visibile a partire dalla fine del primo mese in poi. 

La risposta è comprensibile grazie ad un altro studio condotto su modelli murini, stavolta del 2006 (Zheng et al., 2006). 

In tal caso sono stati messi in relazione lo stress, l’aumento del cortisone e l’insorgenza della depressione con il ruolo di un’unica molecola neurotrofica, il BDNF (Brain-derived neurotrophic factor). 

Oltre a stimolare la plasticità neuronale e sinaptica, ossia la capacità intrinseca del sistema nervoso centrale di modificarsi continuamente a livello neuronale e sinaptico, migliora la sopravvivenza dei neuroni e stimola la neurogenesi. 

La cortisolemia eccessiva diminuisce l’espressione del BDNF agendo a livello genetico tramite CREB, un noto fattore di trascrizione. 

Ne consegue un’atrofia dell’Ippocampo, come già accennato prima. 

L’esercizio fisico riversa questi effetti negativi. 

L’espressione del BDNF sierico aumenta considerevolmente durante la pratica di esercizio fisico, in particolare se si tratta di corsa aerobica (Ferris et al., 2007) e riesce ad attraversare la barriera ematoencefalica anche se con qualche difficoltà. 

Non è tutto, infatti l’esercizio aerobico induce anche neurogenesi ippocampale. 

Fatto già noto dal 1999 (Van Praag H. et al., 1999). 

Si sente ripetere che la neurogenesi sia impossibile nel sistema nervoso centrale, in realtà, nell’Ippocampo ed in particolar modo nel Giro Dentato avviene, così come nel bulbo olfattorio. 

Se avviene neurogenesi nell’Ippocampo, dopo la pratica di esercizio, significa che uno dei problemi principali della depressione può essere affrontato con una cura assolutamente naturale e benefica. 

Gli effetti positivi sul paziente sono riscontrabili entro i tre mesi ed iniziano solo dopo il primo poiché fisiologicamente questi risultano essere i tempi della neurogenesi adulta. 

E’ quindi essenziale che il protocollo di esercizio si protragga nel tempo, che sia fatto da un laureato in scienze motorie specializzato in rieducazione funzionale e che sia prevalentemente aerobico ad una intensità compresa tra il 50-60% del Vo2max per almeno tre volte a settimana. 

Uno dei tasselli fondamentali nella prevenzione della depressione sarebbe quello di evitare l’isolamento sociale, la sedentarietà, lo stress e la vita frenetica.

I benefici dell’esercizio sono riscontrabili anche in altre patologie. 

Grazie alle recenti scoperte della Pedersen, oggi sappiamo che il muscolo è un vero e proprio organo endocrino, produce varie citochine antinfiammatorie come l’IGF1, l’interleuchina-6 (IL-6) o l’adrenalina che comporta l’aumento di due molecole importantissime, AMPK e PGC-1alfa, coinvolte a loro volta nella sintesi proteica e nella biogenesi mitocondriale (Pedersen, 2011). 

Consideriamo un soggetto iperteso: senza queste molecole egli non potrebbe ottenere l’ipertrofia cardiaca eccentrica, ossia quella sana e fisiologica, che va a sostituire quella concentrica, tipica dell’overloading cardiaco causato dall’ipertensione. 

Nella forma eccentrica, i miocardiociti si dispongono in serie e non in parallelo favorendo l’aumento del volume delle camere cardiache. 

Circa il 50% degli ipertesi ignora di esserlo, ecco perché la patologia si è guadagnata l’appellativo ‘’Silent Killer’’. 

Tra le patologie in comorbidità con l’ipertensione troviamo l’obesità. E’ chiaro che raggiungere un peso corporeo che superi il limite, crei dei disagi non solo fisici, ma anche psicologici.

I centri della fame (situati nell’Ipotalamo) dei soggetti in sovrappeso, sono alterati tanto da non garantire una percezione equilibrata del senso della sazietà e della fame (Sàiz et al., 2015). 

Tali sensazioni vengono gestite da diversi ormoni come la leptina, prodotta dagli adipociti. 

E’ l’ennesimo collegamento tra le funzioni corporee e i centri nervosi più elevati.

La psicologia moderna, inoltre, testimonia come le dipendenze patologiche dal cibo siano delle chiare manifestazioni di disagi psicologici legati al fallimento dell’accudimento materno e/o paterno durante il periodo neonatale (Tavella S., 2012). 

Si sente spesso parlare di farmaci antipertensivi, meno di esercizio fisico. 

All’esercizio fisico si dovrebbe accompagnare una speciale dieta, chiamata Dash Diet, che impone la riduzione dell’assunzione di sale negli alimenti (Siervo et al., 2014). 

Altro importante punto cardine sta nella riduzione del peso corporeo, contribuisce al ribasso della pressione dai 5 ai 20mm/Hg per ogni 10 kg persi. 

L’esercizio fisico deve essere prettamente aerobico a bassa/media intensità (40-50% del Vo2max) per trenta minuti al giorno (Dimeo et al., 2012). 

Nei normotesi, essendosi già adattati all’esercizio, la pressione arteriosa post allenamento si riduce di massimo 9mm/Hg, mentre nei soggetti ipertesi si riduce di circa 17mm/Hg e si protrae fino a dodici ore successive alla seduta. 

Questo significa che un soggetto iperteso, impegnato a svolgere esercizio ogni giorno, potrebbe beneficiare per mezza giornata di una pressione arteriosa che si avvicina ai valori standard e questo effetto è assolutamente indipendente dall’assunzione di farmaci ipotensivi.

CONCLUSIONE

Motricità significa essere capaci di svolgere più movimenti possibili. 

E’ impensabile scindere la mente dal corpo durante l’esecuzione di un atto motorio. 

In letteratura è ormai noto che una buona condizione di salute mentale influenzi positivamente la salute fisica e viceversa un soggetto che pratichi abitualmente esercizio fisico è meno soggetto a sviluppare patologie mentali. 

Una vita frenetica concede poche occasioni per fermarsi a sentire le sensazioni che proviamo, sentire piacere durante la pratica dell’esercizio fisico dovrebbe essere naturale come sentirlo nei bisogni primari dell’alimentarsi e del dormire.

E’ chiaro, il valore pleiotropico dell’esercizio è la base da cui partire. 

Il nostro compito dovrebbe essere quello di non fermarci mai di fronte a nuovi dubbi per far sì che diventino conoscenza, indagare la realtà come facevano gli antichi filosofi e sentire il nostro corpo come farebbe un atleta professionista.

Considerare che ogni nostro pensiero si riflette sul corpo e  che  ogni sensazione  del corpo diventa percezione  della mente. 

Dalle  evidenze scientifiche si evince che praticare esercizio fisico è uno dei mezzi primari, assieme all’alimentazione, per perseguire uno stato di buona salute. 

Fare sport, rientrando nei limiti prestativi ed in quelli delle diverse funzioni fisiche e quindi cercando di evitare il sovraccarico funzionale, diventa una delle massime espressioni delle capacità ed abilità del corpo umano.


BIBLIOGRAFIA

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Tavella S., Psicologia dell’handicap e della riabilitazione nello sport, Armando Editore, Roma 2012.

1 commento:

  1. Salve, sono Marta e sono molto felice per essere riuscita a vincere questa borsa prestigiosa.
    Colgo l'occasione per Ringraziare la commissione giudicatrice.

    Buona lettura e buona giornata!

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